tutto fu pronto attesi con impazienza l’arrivo della sera. Seguii ogni suo passo mentre si preparava per uscire, cercando di non tradire le mie emozioni. Ripensavo alle sere precedenti, a come mi sentivo nel vedere un padre uscire di casa e a ciò che sarebbe avvenuto dopo, quando al suo posto sarebbe stato un orco a rientrare nella tana. Volevo replicare tutto anche in quel momento, come avrebbe fatto un mimo durante uno dei suoi numeri, le espressioni del mio viso incluse. Si avvicinò alla porta, la aprì. Poi si fermò e si voltò verso di me.
«Non vai a letto?».
«Non ancora».
«Perché?».
«Perché non ho sonno. Andrò tra un po’».
«Come vuoi. Non ti stancare però. Lo sai che sto male se ti vedo stanca, mi fa sentire come un cattivo padre».
Il cuore mi si fermò per un istante. Se per me fosse giunta la morte in quel momento, l’avrei accettata a braccia aperte. Non risposi, lo guardai, poi accennai un timido “si” con il capo.
«Sono stato un padre cattivo Melanie?», continuò come se provasse gusto nel perseverare in quel sanguinoso interrogatorio, «Rispondimi cazzo! Sono stato un padre cattivo io?».
«No», risposi piangendo e scuotendo freneticamente il capo per confermare una risposta alla quale io, ovviamente, non credevo. Tremavo. Afferrò il mio orecchio torcendolo con forza, con una violenza tale che cominciai a pensare che quel giorno me lo avrebbe staccato dalla testa.
«Brava, molto bene. Ora va meglio, molto meglio. Sei sempre stata una brava bambina, molto brava. Devi sempre ubbidire al tuo papà. In fin dei conti sono io a mantenerti, così come ho mantenuto quella puttana di tua madre per una vita intera, come un parassita. E vedi di farti trovare a letto quando sarò tornato, o te la vedrai brutta, molto brutta! Siamo intesi?».
Lasciò il mio orecchio e uscì sbattendo la porta. Rimasi seduta per qualche istante per assicurarmi che non rientrasse in casa per prendere qualche cosa che aveva dimenticato, come altre volte era accaduto. Ricordo che una volta rientrò dopo un paio di minuti per prendere una pistola che teneva nascosta in un cassetto, già caricata con i proiettili e pronta all’uso. Fu la prima ed ultima volta che vidi quell’arma, non seppi mai che fine avesse fatto o se l’avesse utilizzata contro qualcuno. Lui si accorse che lo stavo guardando mentre infilava la pistola nella cinta dei pantaloni, ero ancora molto piccola. Mi guardò.
«Allora? Che cos’hai da guardare! Devi essere grata al Padre Eterno se non l’ho ancora usata contro di voi!».
Rimasi immobile, pietrificata, gli occhi sbarrati accompagnati dalla bocca aperta con un’espressione simile a quella di stupore che mostrai quando ricevetti il mio pelouche, ma senza l’ombra del sorriso. Mi meravigliai di come la sua bocca potesse portare su di se il nome di Dio. Avevo visto una pistola solo in alcuni cartelli prima d’allora, non c’era ancora la televisione quindi non sapevo a cosa potesse servire quell’oggetto e perché lui si fosse arrabbiato tanto nel vedersi scoperto in quel momento. Arrivò mia madre in mio soccorso.
«Vieni tesoro, vieni con me. Papà ha tante cose da fare, lui non è arrabbiato con te. Non devi pensarlo, va bene?».
«Va bene mammina».
Le sue mani erano posate aperte sulla mia bocca, tanto strette che a fatica riuscii a risponderle, quasi volesse bloccare una mia frase pronunciata fuori posto. O quasi a volermi soffocare, per risparmiarmi tutti i dolori che, ne era sicura, avrei dovuto patire negli anni. Le sue mani profumavano di sapone. Adoravo quel profumo perché sapeva di fiori, sapeva di mamma.
Non rientrò. In quei minuti d’attesa avevo ingannato il tempo assaporando le mie lacrime, cercando di ricordare in quale momento passato le avessi già sentite con lo stesso sapore. Avevo un ricco campionario di gusti tra i quali scegliere, ma in quel momento nessuno sembrava corrispondere ad uno già noto. Avevo scoperto un gusto nuovo, le mie lacrime si erano leggermente addolcite. Corsi in camera mia, raccolsi i miei soldi e li infilai nella valigia. In punta di piedi scesi le scale, aprii la porta e guardai fuori, timorosa di ritrovarmelo lì davanti agli occhi pronto a dirmi “Ti avevo avvisata, avresti dovuto darmi retta mocciosetta! Ora passerai un guaio!”. Ma la sua ombra non c’era, non ci sarebbe stata mai più. Un passo, due passi, tre passi. Sempre più veloci, quasi di corsa. Imboccai il vialetto sulla destra, vidi il signor Smith sulla porta di casa sua mentre sistemava i fiori nei vasi posti sugli scalini all’ingresso. I suoi figli Martin e Sandy gli giravano attorno come fanno le farfalle con un bel fiore. Lui scherzava con loro e la madre, che li aveva raggiunti sulla soglia di casa, li stava a guardare sorridente. Rallentai per osservare meglio quell’immagine di famigliola felice, quella che io non avevo mai avuto, per portarla via con me facendo finta che fosse anche un po’ la mia.
Nei cinque anni che seguirono mio padre non venne mai a cercarmi. Quantomeno nessuno mi disse mai che l’aveva fatto. Quando tornai svogliatamente a casa il giorno del suo funerale i vicini mi raccontarono che quando rientrò quella notte in cui me ne andai, ubriaco fradicio come sempre, cominciò a gridare mettendo in allarme l’intero vicinato. Nessuno mi aveva vista uscire, nessuno fu in grado di rispondere alle domande che sbiascicò con la sua bocca avvelenata dall’alcol. Mi dissero anche che tramite le sue losche conoscenze era venuto a sapere dove mi trovavo ma che aveva deciso di lasciarmi stare, di non perseguitarmi oltre, perché sapeva di non essere stato un buon padre e mi avrebbe fatto solo del male se fossi stata costretta a tronare da lui. Avevo deciso di andarmene, per lui andava bene così. Qualcuno affermò che aveva deciso di premiare il mio coraggio, la capacità che avevo dimostrato nell’essere riuscita a metterlo alle corde. Non credetti ad una sola delle parole che mi erano state dette in quel momento da gente che nemmeno mi conosceva, ma poi mi rassegnai al fatto che potessero anche essere vere, perché comunque non mi importava più nulla di lui. L’orco era morto, ucciso da un altro orco durante un regolamento di conti, forse.
Erano circa le nove di sera del 15 settembre 1960. Pioveva ormai a dirotto e senza sosta da tre giorni, ne avremmo avuto ancora per un po’. Ero da poco rincasata dal lavoro, spesso facevo dei turni un po’ più lunghi per guadagnare qualche soldo in più. In cinque anni avevo guadagnato abbastanza soldi per decidere di comprarmi finalmente una casa tutta mia, aiutandomi con un piccolo prestito della banca. La mia vita era cambiata, stavo finalmente cominciando a trovare una mia identità. Debole forse, ma pur sempre mia. Il lavoro mi era stato molto d’aiuto in tutto questo, mi aveva permesso di rattoppare le ferite accumulate negli anni che mantenevano però il loro dolore sotto le numerose cicatrici sparse su tutto il mio corpo. Un dolore diffuso, più sopportabile seppur continuo ma che non lasciava spazio al riposo dell’anima. Riscaldai il mio precotto nel forno e mi sedetti al tavolo in attesa che venisse pronto mentre le mani reggevano il peso della mia testa.
La televisione era disponibile da pochi anni ma solo le famiglie più ricche potevano permettersi di comprarne e mantenerne una. Non di certo io. Quelle poche volte che veniva trasmesso qualcosa di interessante mi fermavo fuori dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici dove si radunavano altri che come me non potevano averne una. Ma giunto l’orario di chiusura del negozio il solito omino grassoccio con i baffi si avvinava a noi, protetto dalla vetrina, per annunciare allargando le braccia sconsolato che “le trasmissioni per quel giorno erano finite”, o che l’indomani ci sarebbero state “delle ottime offerte in negozio alle quali non avremmo potuto rinunciare per portarci finalmente a casa il nostro primo splendido apparecchio televisivo”. Ce l’aveva scritte sul volto queste parole, non aveva bisogno di pronunciarle. Provai a rifugiarmi anche nei bar, quelli che mettevano un televisore a disposizione dei loro clienti, soprattutto durante i mesi freddi invernali o nelle serate di pioggia. Ma l’odore dei vapori dell’alcol mi arrivava subito alla testa, mi faceva ricordare mio padre e mi costringeva a fuggire via come un detenuto alla ricerca della sua strada verso la libertà.
In casa avevo una vecchia radio che accendevo ogni tanto, quando mi prendeva la voglia di sentire una voce che fosse sufficientemente distante e che non richiedesse una mia risposta, una interazione con me. L’avevo trovata su una bancherella dell’usato, in vendita per pochi dollari. Era guasta ma il venditore mi aveva assicurato che si sarebbe potuta facilmente sistemare. La comprai non completamente convinta di aver fatto un buon affare e un amico si offrì per ripararmela gratis. Si chiamava Ryan. Quel ragazzo fu l’unico