di un orologio.
Una parte di Kevin sapeva che doveva essere un orologio, come sapeva anche, per istinto, che stava segnando il conto alla rovescia di qualcosa, e non semplicemente marcando il tempo. Le pulsazioni davano la sensazione di diventare man mano leggermente sempre più intense, come in una sorta di remoto crescendo. C’era anche una parola in una lingua che lui non poteva capire, ma che capiva.
“Aspetta.”
Kevin avrebbe voluto chiedere cosa dovesse aspettare, o per quanto, o per quale motivo. Ma non lo fece, in parte perché non era sicuro di chi dovesse sentire la sua richiesta, e in parte perché nello stesso momento in cui era arrivata, la visione era già finita, lasciandolo risalire dal buio per trovarsi disteso sul pavimento della classe con la signorina Kapinski in piedi su di lui.
“Resta lì sdraiato solo un momento, Kevin,” gli disse. “Ho mandato a chiamare il medico della scuola. Hal arriverà tra un minuto.”
Kevin si mise a sedere nonostante le sue istruzioni, perché ormai aveva imparato a riconoscere quelle sensazioni.
“Sto bene,” la rassicurò.
“Penso che dovremmo lasciare che sia Hal a giudicare.”
Hal era un ex paramedico, alto e grosso, che prestava servizio presso la scuola di St. Bredan, accertandosi che ogni emergenza venisse affrontata nel modo dovuto. A volte Kevin sospettava che lo facessero perché l’idea che ci fosse un medico a prestare soccorso poteva forse far ignorare le peggiori ferite.
“Ho visto delle cose,” riuscì a dire Kevin. “C’era un pianeta, e un sole ardente, e una specie di messaggio… come un conto alla rovescia.”
In un film qualcuno avrebbe insistito per contattare qualcuno di importante. Avrebbero riconosciuto l’importanza del messaggio. Ci sarebbero state delle riunioni e delle indagini. Qualcuno avrebbe fatto qualcosa. Fuori dai film, Kevin era solo un ragazzo di tredici anni e la signorina Kapinski lo guardò con un miscuglio di pena e tenue stupore.
“Beh, sono sicura che non è niente,” disse. “Probabilmente è normale vedere ogni genere di cosa se ti capitano questa sorta di… episodi.”
Attorno a loro Kevin poteva sentire i bisbigli degli altri ragazzi in classe. Niente di tutto questo lo fece sentire minimamente meglio.
“… caduto e ha iniziato a fremere…”
“… avevo sentito che stava male, spero solo che non si prenda…”
“… Kevin pensa di vedere i pianeti…”
L’ultima osservazione fu quella che gli fece più male. Faceva apparire Kevin come se fosse pazzo. Kevin non stava diventando pazzo. O almeno non pensava.
Nonostante i migliori tentativi nell’insistere che stava bene, dovette comunque andare con Hal quando il medico arrivò. Dovette sedersi nell’infermeria della scuola mentre l’uomo gli guardava gli occhi con una luce e gli faceva domande su una patologia così rara che ovviamente neanche lui aveva più idea di Kevin di cosa stesse accadendo.
“Il preside voleva vederci non appena mi fossi accertato che stavi bene,” disse. “Te la senti di camminare fino al suo ufficio, o gli chiediamo di venire qui?”
“Posso camminare,” disse Kevin. “Sto bene.”
“Se lo dici tu,” disse Hal.
Si diressero verso l’ufficio del preside, e Kevin non fu quasi per nulla sorpreso di trovare lì sua madre. Era ovvio che l’avessero chiamata per un’emergenza medica, era ovvio che fosse lì se lui era svenuto, ma non era una buona cosa, dato che doveva essere al lavoro.
“Kevin, stai bene?” chiese sua madre quando le arrivò vicino, girandosi verso di lui e stringendolo in un abbraccio. “Cos’è successo?”
“Sto bene, mamma,” disse Kevin.
“Signora McKenzie, sono certo che non l’avremmo chiamata se non si trattasse di qualcosa di serio,” disse il preside. “Kevin è svenuto.”
“Ora sto bene,” insistette Kevin.
Non sembrò che facesse differenza però, per quante volte lo dicesse.
“E poi,” disse il preside, “pare che fosse piuttosto confuso quando è rinvenuto. Stava parlando di… beh, altri pianeti.”
“Pianeti,” ripeté la madre di Kevin. Aveva la voce piatta quando lo disse.
“La signorina Kapinski dice che la cosa ha disturbato un po’ la quiete della sua lezione,” disse il preside. Sospirò. “Mi sto chiedendo se magari Kevin non potesse stare meglio a casa per un po’.”
Lo disse senza guardare Kevin. Si stava prendendo una decisione lì, e anche se Kevin ne era al centro, appariva evidente che effettivamente non aveva voce in merito.
“Non voglio stare a casa da scuola,” disse, guardando verso sua madre. Di certo sarebbe stata d’accordo con lui.
“Penso che quello che dobbiamo chiederci,” disse il preside, “sia se, a questo punto, la scuola sia la cosa migliore da fare per Kevin per il tempo che gli resta.”
Probabilmente l’intenzione era di mettere la cosa in modo gentile, ma l’effetto fu di ricordare a Kevin ciò che aveva detto il medico. Sei mesi di vita. Non pareva essere tempo sufficiente per nulla, figurarsi viversi una vita. Sei mesi fatti di secondi che gocciolavano via uno alla volta a ritmo regolare, in piena sintonia con il conto alla rovescia che aveva nella sua testa.
“Sta dicendo che non ha senso che mio figlio venga a scuola perché tanto sarà presto morto?” chiese con tono secco sua madre. “Sta dicendo questo?”
“No, certo che no,” disse il preside di fretta, sollevando le mani per tranquillizzarla.
“A me pare che questo fosse il senso delle sue parole,” ribatté la madre di Kevin. “Sembra che abbiate una paura folle della malattia di mio figlio, proprio come il resto dei ragazzi qui.”
“Sto dicendo che diventerà sempre più difficile insegnare a Kevin man mano che le cose peggiorano,” disse il preside. “Ci proveremo, ma… non volete usare al meglio il tempo rimasto?”
Lo disse con un tono delicato che comunque riuscì a trafiggere in pieno il cuore di Kevin. Stava dicendo proprio quello che sua madre aveva pensato, solo che con parole più gentili. La cosa peggiore era che aveva ragione. Kevin non sarebbe vissuto abbastanza per andare all’università, o per avere un lavoro, o per fare qualsiasi cosa per cui la scuola dovesse prepararlo, quindi perché preoccuparsi di stare lì?
“Va bene, mamma,” le disse, stringendole un braccio.
Sembrò essere sufficiente a convincere sua madre, e solo questo bastò a dire a Kevin quanto tutta la situazione fosse estremamente seria. In altre occasioni, si sarebbe aspettato che lei si opponesse. Ora pareva che la combattività si fosse esaurita in lei.
Andarono in silenzio alla macchina. Kevin si girò per guardare la scuola. Lo colpì il pensiero che forse non ci sarebbe mai più tornato. Non aveva neanche avuto la possibilità di salutare.
“Mi spiace che ti abbiano chiamata al lavoro,” disse Kevin mentre si sedevano in macchina. Poteva percepire la tensione. Sua madre non accese il motore, ma rimase ferma seduta.
“Non è questo,” disse. “È solo che… non si stava rivelando facile fingere che tutto andasse bene.” Aveva una voce così triste, così profondamente ferita. Kevin si era abituato a quell’espressione, che significava che lei stava tentando di trattenersi dal piangere. Ma non ci stava riuscendo.
“Stai davvero bene, Kevin?” gli chiese, anche se ora era lui che si stava tenendo stretto a lei, più forte che poteva.
“Io… vorrei non dover mollare la scuola,” disse Kevin. Non aveva mai pensato che avrebbe detto una cosa del genere. Non aveva mai pensato che chiunque avrebbe potuto dirlo.
“Potremmo