Морган Райс

Messaggi dallo Spazio


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di provare un momento di speranza al pensiero. Non voleva che tutto questo continuasse a girargli nella testa. Non aveva chiesto lui di ricevere messaggi che nessun altro poteva capire e che lo facevano solo apparire pazzo quando ne parlava.

      “Puoi tentare di trovare cose che ti distraggano dalle allucinazioni quando arrivano,” disse la dottoressa Yalestrom. “Puoi tentare di ricordare a te stesso che non sono reali. Se hai dei dubbi, trova dei modi per controllarle. Magari chiedi agli altri se vedono la stessa cosa. Ricorda, va bene vedere qualsiasi cosa tu veda, ma come ci reagisci dipende da te.”

      Kevin immaginava di poter ricordare tutto questo. Lo stesso non fece nulla per zittire il debole pulsare del conto alla rovescia che batteva come sottofondo, diventando poco a poco sempre più veloce.

      “E penso che tu debba dirlo alle persone che non lo sanno,” disse la dottoressa Yalestrom. “Non è onesto nei loro confronti tenerli all’oscuro in questo modo.”

      Aveva ragione.

      E c’era una persona a cui doveva farlo sapere più che a tutti gli altri.

      Luna.

      CAPITOLO QUATTRO

      “Allora,” disse Luna mentre lei e Kevin camminavano lungo uno dei sentieri dell’area ricreativa delle Sorgenti Lafayette, schivando i turisti e le famiglie che si godevano la giornata all’aria aperta, “perché mi hai evitata ultimamente?”

      Tipico di Luna, andare dritta al punto. Era una delle cose che a Kevin piacevano di lei. Non che lei gli piacesse in quel senso. La gente sembrava sempre pensarlo. Pensavano che dato che era carina, bionda e probabilmente perfetta per fare la cheerleader, se solo non avesse pensato che fosse qualcosa di stupido, fosse ovvio che loro due fossero fidanzati. Davano semplicemente per scontato che le cose funzionassero così nel mondo.

      Non stavano insieme. Luna era la sua migliore amica. La persona con cui passava la maggior parte del tempo, fuori dalla scuola. Forse l’unica persona al mondo con cui potesse parlare assolutamente di tutto.

      Eccetto questo, a quanto pareva.

      “Non ti ho…” Kevin esitò davanti allo sguardo fisso di Luna. Era brava a lanciare occhiate. Kevin sospettava che probabilmente si esercitasse. Aveva visto tutti, dai bulli ai negozianti maleducati farsi indietro piuttosto che doverla guardare più a lungo negli occhi. Di fronte a quello sguardo, era impossibile mentirle. “Va bene, sì, ma è difficile, Luna. Ho una cosa… beh, una cosa che non so come dirti.”

      “Oh, non essere stupido,” disse Luna. Trovò lungo il sentiero una lattina di soda abbandonata e le diede un calcio, passandosela da piede a piede con l’abilità di chi fa questa cosa fin troppo spesso. “Voglio dire, quanto brutto può essere? Devi trasferirti? Cambi ancora scuola?”

      Forse colse qualcosa nella sua espressione, perché fece silenzio per qualche secondo. C’era qualcosa di fragile in quel silenzio, come se entrambi stessero camminando in punta di piedi per evitare di spezzarlo. Ma dovevano lo stesso farlo. Non potevano andare avanti a camminare a quel modo per sempre.

      “Qualcosa di brutto allora?” disse lei, lanciando la lattina in un bidone dell’immondizia con un ultimo colpo del piede.

      Kevin annuì. Brutto era una parola giusta.

      “Quanto brutto?”

      “Brutto,” le rispose. “Il laghetto?”

      Il laghetto era il posto dove entrambi andavano quando volevano sedersi e parlare di qualcosa. Avevano discusso di Billy Hames che andava dietro a Luna quando avevano nove anni, e del gatto di Kevin, Tigre, che era morto quando ne avevano dieci. Niente di tutto ciò sembrava una sufficiente preparazione a questo. Lui non era un gatto.

      Andarono fino al bordo dell’acqua, guardando gli alberi dalla parte opposta, la gente con le loro canoe e le barche a remi sul lago. Rispetto ad altri posti dove andavano, questo era carino. La gente pensava che Kevin fosse il ragazzo della parte sbagliata della città che portava Luna alla deriva, ma era lei quella portata per saltare le siepi e arrampicarsi su edifici cadenti, lasciando Kevin a seguirla, se ci riusciva. Qui non c’era niente di tutto questo: solo acqua e alberi.

      “Cosa c’è?” chiese Luna. Si tolse la scarpe e infilò i piedi nell’acqua. Kevin non aveva voglia di fare lo stesso. In quel momento avrebbe voluto scappare e nascondersi. Tutto piuttosto che dirle la verità. Era come se, più aspettava prima di dirlo a Luna, e più la cosa restava in una sorta di irrealtà.

      “Kevin?” disse Luna. “Mi stai preoccupando adesso. Senti, se non mi dici cosa c’è, allora chiamo tua mamma e lo scopro in qualche altro modo.”

      “No, non farlo,” disse Kevin rapidamente. “Non sono sicuro… la mamma non sta gestendo bene questa cosa.”

      Luna appariva sempre più preoccupata. “Cosa c’è che non va? Sta male? Stai male tu?”

      Kevin annuì all’ultima affermazione. “Sto male,” confermò. Mise la mano sulla spalla di Luna. “Ho una cosa che si chiama leucodistrofia. Sto morendo, Luna.”

      Sapeva di averlo detto troppo rapidamente. Una cosa del genere, ci voleva un’intera spiegazione introduttiva, una corretta esposizione, ma onestamente era quella la parte che contava.

      Lei lo fissò, scuotendo la testa con ovvio stupore e incredulità. “Non può essere, è…”

      Allora lo abbracciò, lo tenne tanto stretto che Kevin quasi non riusciva a respirare.

      “Dimmi che è uno scherzo. Dimmi che non è reale.”

      “Vorrei che non lo fosse,” disse Kevin. Lo desiderava più di qualsiasi altra cosa in quel momento.

      Luna si ritrasse e Kevin la vide contrarre il volto nel tentativo di non piangere. Normalmente Luna era brava a non piangere. Ma ora era evidente che le stava costando fatica.

      “Questo… quanto tempo?” chiese.

      “Mi hanno detto forse sei mesi,” disse Kevin.

      “E questo è stato giorni fa, quindi è meno adesso,” ribatté Luna. “E hai dovuto gestire questa cosa da solo, e…” Fece silenzio di fronte all’assoluta enormità che la stava ovviamente travolgendo.

      Kevin la vide guardare la gente sul lago, con le loro piccole barche e le loro rapide incursioni in acqua. Sembravano essere felici lì. Li stava fissando come se fossero loro la parte che non era capace di credere, non la malattia.

      “Non mi pare giusto,” disse. “Tutta quella gente, vanno avanti come se il mondo fosse lo stesso, se la stanno spassando mentre tu stai morendo.”

      Kevin sorrise tristemente. “Cosa dovremmo fare? Dire a tutti di smettere di divertirsi?”

      Si rese conto leggermente troppo tardi del pericolo nel fare quella constatazione, e Luna balzò in piedi, si portò le mani alla bocca e gridò al massimo della propria voce.

      “Ehi, tutti voi, dovete fermarvi! Il mio amico sta morendo, e vi chiedo di smettere immediatamente di divertirvi!”

      Un paio di persone si guardarono attorno, ma nessuno si fermò. Kevin sospettava che non fosse quello il punto. Luna rimase ferma per diversi secondi, e questa volta fu lui ad abbracciarla, tenendola stretta mentre lei piangeva. Era una tale rarità che il puro shock del momento tenne Kevin avvinghiato a lei. Luna che gridava alla gente e che si comportava in modi che mai ci si sarebbe aspettati da una come lei, beh, erano tutte cose normali. Luna che crollava, no.

      “Ti senti meglio?” le chiese dopo un po’.

      Luna scosse la testa. “Non proprio. E tu?”

      “Beh, è carino sapere che c’è qualcuno che tenterebbe di fermare il mondo per me,” disse. “Sai qual è la parte peggiore?”

      Luna cercò di fare un altro sorriso. “Non essere capace di pronunciare bene il nome della cosa che ti sta uccidendo?”

      Kevin