troppo,” disse Kevin. Chiuse gli occhi con forza. “Penso che la situazione sia già peggiorata abbastanza, mamma.”
La sentì colpire il cruscotto e il tonfo sordo riecheggiò all’interno dell’abitacolo.
“Lo so,” disse. “Lo so e la cosa mi fa impazzire. Odio questa malattia che mi sta portando via il mio bambino.”
Pianse ancora un poco. Nonostante i suoi tentativi di restare forte, Kevin fece lo stesso. Parve passare parecchio tempo prima che sua madre riprendesse la calma e potesse parlare di nuovo.
“Hanno detto che hai visto… dei pianeti, Kevin?” gli chiese.
“L’ho visto,” le rispose. Come poteva spiegarle com’era? Quanto fosse vero?
Sua madre guardò fisso davanti a sé, e Kevin ebbe l’impressione che stesse lottando per trovare le parole giuste da dire. Lottando per essere allo stesso tempo di conforto, ferma e calma. “Ti rendi conto che non è reale, vero tesoro? È solo… è solo la malattia.”
Kevin sapeva che avrebbe dovuto capire, ma…
“Non sembra così,” rispose.
“Lo so,” disse sua madre. “E odio che sia così, perché è solo un promemoria che il mio bambino sta scivolando via. Tutto questo, vorrei solo spazzarlo via.”
Kevin non sapeva cosa rispondere. Anche lui avrebbe voluto che tutto sparisse.
“Sembra reale, lo sento reale,” aggiunse comunque.
Sua madre rimase a lungo in silenzio. Quando finalmente parlò, la sua voce aveva quella tonalità inconsistente, di qualcosa tenuto insieme a malapena che aveva assunto solo dopo la diagnosi, ma che gli era già diventata così familiare.
“Forse… forse è ora che ti porti a conoscere quella psicologa.”
CAPITOLO TRE
Lo studio della dottoressa Linda Yalestrom non aveva nessuna delle caratteristiche mediche di tutti gli altri posti che Kevin aveva visitato recentemente. Prima di tutto era casa sua, a Berkeley, con l’università tanto vicina che pareva dare credito alle sue credenziali professionali tanto quanto i certificati e diplomi ben incorniciati e appesi alle pareti.
Il resto aveva l’aspetto del genere di ufficio casalingo che Kevin aveva avuto modo di vedere in TV, con mobili leggeri ovviamente relegati lì dopo qualche spostamento precedente, una scrivania dove il disordine si era propagato come nel resto della casa, e alcune piante in vaso che sembravano pazientare nell’attesa di essere sostituite.
Kevin si sorprese a scoprire che la dottoressa Yalestrom gli piaceva. Era una donna sulla cinquantina, bassa e con i capelli scuri, con abiti chiari ben diversi dai camici ospedalieri. Kevin sospettava che fosse proprio quello il punto, se passava un sacco di tempo lavorando con gente che aveva già ricevuto le peggiori notizie da parte di medici e specialisti.
“Vieni, siediti qui, Kevin,” disse con un sorriso, indicando un grande divano rosso ben consumato dagli anni e dalla gente che vi era passata sopra. “Signora McKenzie, ci concede un po’ di tempo? Voglio che Kevin si possa sentire libero di dire tutto quello che vuole. La mia assistente le porterà del caffè.”
Sua madre annuì. “Starò qua fuori.”
Kevin andò a sedersi sul divano, che si dimostrò comodo come sembrava. Si guardò attorno nella stanza, osservando le foto di giornate di pesca e vacanze. Gli ci volle un po’ per rendersi conto di una cosa importante.
“Lei non appare in nessuna di queste foto,” disse.
La dottoressa Yalestrom sorrise. “La maggior parte dei miei clienti non lo notano neanche. La verità è che molti di questi sono luoghi dove ho sempre voluto andare, o posti che ho sentito descrivere come interessanti. Li ho messi qui perché i giovani come te passano un sacco di tempo a guardarsi in giro, facendo qualsiasi cosa piuttosto che parlare con me, e mi sono immaginata che magari ci dovesse essere qualcosa che valesse almeno la pena di guardare.”
Per Kevin era un po’ come barare.
“Se lei lavora tanto con la gente che muore,” disse. “Perché tiene foto di posti dove ha sempre voluto andare? Perché mostrarli, quando avete visto che…”
“Quando ho ben visto quanto rapidamente tutto possa finire?” chiese con gentilezza la dottoressa Yalestrom.
Kevin annuì.
“Forse per la meravigliosa abilità umana di saperlo e poterlo comunque procrastinare. O magari sono stata effettivamente in alcuni di questi posti, e il motivo per cui non sono nelle foto è che penso sia sufficiente la mia presenza qui in carne e ossa a fissare le gente.”
Kevin non era certo che fossero dei buoni motivi. In un certo senso non gli sembrava.
“Dove andresti, Kevin?” chiese la dottoressa Yalestrom. “Dove andresti se potessi andare da qualsiasi parte?”
“Non lo so,” rispose lui.
“Beh, pensaci. Non occorre che me lo dici subito.”
Kevin scosse la testa. Era strano parlare a un adulto in questo modo. Di solito, a tredici anni, le conversazioni giravano attorno a domande e istruzioni. Con la possibile eccezione di sua madre, che era comunque al lavoro per la maggior parte del tempo, gli adulti non erano realmente interessati a quello che avesse da dire uno della sua età.
“Non lo so,” ripeté. “Intendo dire, non ho mai davvero pensato di andare da qualche parte.” Cercò di pensare a posti dove gli sarebbe piacito andare, ma era difficile pensare a un luogo, soprattutto ora che aveva solo pochi mesi per farlo. “Mi sento come se, qualsiasi posto pensi, non abbia importanza. Molto presto sarò morto.”
“E cosa pensi abbia importanza?” chiese la dottoressa Yalestrom.
Kevin fece del suo meglio per pensare a un motivo. “Magari che… che molto presto non è la stessa cosa di adesso?”
La psicologa annuì. “Penso che sia un buon modo per vedere le cose. Quindi, c’è qualcosa che ti piacerebbe fare entro questo molto presto, Kevin?”
Kevin ci pensò. “Immagino… immagino che dovrei dire a Luna quello che sta succedendo.”
“E chi è Luna?”
“È una mia amica,” disse Kevin. “Non andiamo più nella stessa scuola, quindi non mi ha visto svenire o cose del genere, e sono un po’ di giorni che non la chiamo, ma…”
“Ma dovresti dirglielo,” disse la dottoressa Yalestrom. “Non fa bene alla salute spingere via i propri amici quando le cose vanno male, Kevin. Neanche per proteggerli.”
Kevin ricacciò indietro l’impulso di smentire, ma più o meno era quello che stava facendo. Non voleva dare a Luna questo peso, non voleva ferirla con la novità di ciò che sarebbe successo. Era in parte il motivo per cui da così tanto non la chiamava.
“Cos’altro?” chiese la dottoressa Yalestrom. “Proviamo ancora con i luoghi. Se potessi andare da qualche parte, dove andresti?”
Kevin cercò di scegliere tra tutti i luoghi che c’erano nella stanza, ma la verità era che c’era solo un paesaggio che continuava a saltellargli nella testa, con colori che nessuna normale macchina fotografica avrebbe mai potuto immortalare.
“Sembrerei stupido,” disse.
“Non c’è niente di sbagliato nel sembrare stupidi,” lo rassicurò la dottoressa Yalestrom. “Ti dirò un segreto. La gente pensa spesso che tutti, tranne loro stessi, siano speciali. Pensano che le altre persone debbano essere più intelligenti, o più coraggiose, o migliori, perché riescono a vedere solo quelle parti di loro stessi che non sono così. Sono preoccupati che tutti gli altri dicano la cosa giusta, e che loro sembrino invece degli stupidi. Ma non è per niente vero.”
Lo stesso Kevin se ne restò seduto