ella potesse soffrir meno.
Maria s'era ritirata con Anna Veronica in una stanza lontana, prossima a quella del padre, e Anna a bassa voce procurava di calmar l'ansia e l'impazienza di lei.
– Quando il bambinello verrà con la sua manina a battere a quell'uscio, chiamando NONNO! NONNO! con l'odore del latte nella vocina, ah, voglio vedere se non aprirà! Aprirà… E allora, fi-gliuola mia, io non potrò più venire da voi, è vero; ma non importa! Io prego ogni sera il mio Gesù che vi faccia questa grazia.
Improvvisamente, barcollando, urlando, con le braccia levate, furibonda dagli spasimi e dalla paura, irruppe in quella stanza Marta, discinta, scarmigliata, inseguita dalla madre e dalle donne assistenti. Maria, Anna Veronica si levarono spaventate e le corsero dietro anch'esse. Marta andò a urtare con-tro l'uscio del padre e, battendovi con la testa e con le mani, chiamava, supplicava:
– Babbo! Apri, babbo! Non mi far morire così! Apri, babbo! Muojo, perdonami!
Le donne, piangendo, gridando, cercavano di strapparla di là. Il medico la prese per le braccia.
– Codeste sono pazzie, signora! Via, via: il babbo verrà; si lasci condurre…
Le donne la circondarono, la tolsero quasi di peso, la trascinarono nella camera del travaglio.
Quivi la adagiarono sfinita su i guanciali.
Poco dopo, Maria, ch'era ritornata a origliare all'uscio del padre, entrò nella camera della sorella, con faccia stravolta, tutta tremante, a chiamare la madre; la condusse all'uscio del rinchiuso e, tendendo di nuovo l'orecchio, le disse:
– Senti? senti? Mamma, senti?
Veniva dalla stanza, attraverso l'uscio, un romor sordo, continuo, come un ruglio di cane aizzato.
– Francesco! – chiamò forte la signora Ajala.
– Babbo! – chiamò Maria, lì lì per piangere.
Nessuna risposta. La madre afferrò con mano convulsa la gruccia dell'uscio e spinse e scosse: inva-no. Attese: il rantolo continuava, crescente come in un ringhio.
– Francesco! – chiamò di nuovo.
– Mamma! oh mamma! – fece Maria, presaga, torcendosi le mani.
La signora Ajala diede allora una spallata all'uscio resistente; una seconda; alla terza l'uscio cedette.
Nella camera al bujo giaceva Francesco Ajala, bocconi sul pavimento, con un braccio proteso, l'altro storto sotto il petto.
Al grido acutissimo della madre e di Maria rispose dalla camera della partoriente come un ùlulo lun-go, ferino. Accorse Anna Veronica, accorse il medico; si spalancarono le imposte; e il corpo inerte, fulminato di Francesco Ajala fu deposto con inutile cautela sul letto e messo quasi a sedere, sorretto da guanciali.
– Non gridino, per carità, non gridino! – scongiurò il medico. – O ne perderanno due!
– Dunque è perduto? – gridò la signora Ajala.
Il medico fece un gesto disperato, e prima di accorrere alla camera della partoriente ordinò alla serva di recarsi per un altro medico, subito, alla prossima farmacia.
Maria, piangendo, asciugava con un fazzoletto su la faccia congestionata del padre il sangue che gli usciva da una lieve ferita alla fronte.
Ah se questo solo fosse stato il male! Pure ella metteva tutta l'attenzione, tutto il suo amore, nell'arrestare quelle poche gocce di sangue, come se da questo sol-tanto dipendesse la salvezza del padre. La madre pareva impazzita: voleva a ogni costo che il marito parlasse, e l'abbracciava e gli stringeva le mani diacce, già morte.
Francesco Ajala, terreo in volto, continuava a rantolare sordamente, con la bocca spalancata e gli occhi chiusi.
Accorse l'altro medico, ch'era un omacciotto calvo, bircio d'un occhio.
– Largo! che c'è? Mi lascino vedere… Eh! – fece, con voce oppressa da intasamento nasale, perco-tendosi le anche. – Povero signor Francesco! Ghiaccio, ghiaccio… Qui, alla farmacia dirimpetto, car-te senapate, una vescica… Chi va? chi corre? Si levino d'attorno al letto… aria! aria! Povero signor Francesco…
Giunse attraverso gli usci chiusi un grido prolungato, quasi di rabbia furibonda. Il medico si volse di scatto; tutti per un attimo si distrassero e attesero.
– Povera figlia mia! – poté finalmente gemere la signora Agata, rompendo in singhiozzi.
Allora le altre donne piansero e gridarono insieme. Il medico si guardò intorno smarrito, sbalordito, si grattò con un dito il cranio, poi sedette e si mise a far rincorrere i due pollici delle mani intrecciate sul ventre.
Una lagrima solcò lentamente il volto del moribondo e si arrestò ai folti baffi grigi.
Ogni rimedio fu vano.
L'agonia durò fino a sera. Solo quel rantolo continuo, monotono, attestava un ultimo resto di vita in quel corpo gigantesco, ripiegato quasi a sedere sul letto.
Sul tardi, la signora Agata pensò a Marta, e si recò alla camera di lei. Fu colpita, nell'aprir l'uscio, dall'odore dell'ammoniaca e dell'aceto. Il parto era dunque avvenuto?
Marta giaceva immobile, cerea su i guanciali, e pareva esanime. La donna assistente reggeva, china su la puerpera, una compressa, e il medico, pallidissimo, sbracciato, buttava fiocchi di ovatta insan-guinata in un catino per terra.
– Di là, – diss'egli alla madre, accennando l'uscio della stanza attigua.
La signora Agata, in silenzio, prima d'entrare nell'altra stanza come un automa, guardò la figlia.
– Morto… – bisbigliò questa, come a se stessa, con voce vuota d'espressione, quasi non le fosse venu-ta da più lontano che dalle labbra.
La levatrice mostrò di là alla madre, un mostricciattolo quasi informe, tra la bambagia, livido, odo-rante di musco.
– Morto…
Dalla via sottostante giunse il suono stridulo d'un campanello e un coro nasale, quasi infantile, di donne in frettolosa processione:
OGGI E SEMPRE SIA LODATO
NOSTRO DIO SAGRAMENTATO…
Il Viatico! – disse la vecchia levatrice, inginocchiandosi, col morticino tra le braccia, in mezzo alla stanza.
La signora Agata uscì in fretta, accorse alla sala d'ingresso, mentre già entrava il prete parato, con la pisside in mano, e un uomo che gli veniva dietro, con gli occhi quasi spiritati di paura, chiudeva il baldacchino. Il sagrestano con un tabernacoletto tra le braccia seguì il prete nella camera del mori-bondo. Le donne e i fanciulli che accompagnavano il Viatico s'inginocchiarono nella saletta, parlot-tando tra loro.
Francesco Ajala non intese, non comprese nulla; ricevette soltanto l'estrema unzione e, presente an-cora il prete, spirò.
Appena giù per la strada, il suono stridulo del campanello e il rosario delle donne si confusero con le grida clamorose e gli applausi d'una folla di schiamazzatori, i quali, con una bandiera in testa, esalta-vano la proclamazione di Gregorio Alvignani a deputato.
VII
Dopo il parto, Marta stette circa tre mesi tra la vita e la morte.
Provvidenza divina, questa malattia, diceva Anna Veronica. Sì, perché, altrimenti, le due povere su-perstiti, la vedova e l'orfana, sarebbero certo impazzite. Invece, nella lotta disperata contro quel male che sembrava invincibile, le loro labbra, che pareva non avessero dovuto mai più sorridere, sorrisero due mesi appena dopo la morte quasi violenta del capo di casa, ai primi accenni della convalescenza di Marta.
Instancabile, Anna Veronica, dopo tante veglie, recava adesso ogni mattina alla convalescente pic-cole immagini odorose di santi, contornate di carta trapunta, punteggiate d'oro, con nimbi d'oro.
– Qua, – diceva, – dentro la busta, sotto il guanciale: ti guariranno: sono benedette.
E mostrandole i due santi patroni del paese, San Cosimo e San Damiano, con le tuniche