tempo s'erano messi a corteggiarla, sperando di trarre in inganno l'appassionata natura di lei; ma Anna, che veramente si consumava dentro nell'attesa d'un uomo a cui avrebbe consacrato il più ardente e devoto amore, s'era saputa sempre difendere. Qual-che mazzolino di fiori, lo scambio di qualche letterina, discorsi e sogni, fors'anche qualche bacio carpito: e basta poi.
Pure nell'insidia era caduta una volta, poco dopo la morte della madre, e vi era stata vilmente trasci-nata dal fratello d'una tra le sue più ricche amiche, in casa delle quali soleva spesso recarsi dopo le interminabili ore di scuola, sempre ben accetta, poiché ella le ajutava nei loro lavori di cucito, le ral-legrava con le sue barzellette argute e pronte, e spesso rimaneva da loro a desinare e talvolta anche a dormire.
Quella prima caduta era stata tenuta nascosta con interessata prudenza dai parenti del giovine, così che nulla di preciso n'era trapelato in paese. Anna aveva pianto segretamente la propria giovinezza sfiorita, l'avvenire spezzato, e aveva per qualche tempo sperato nel ravvedimento del giovine. Molte delle amiche, ignare o generose, le avevano conservato la loro amicizia, e fra queste Agata Ajala, al-lora da poco maritata.
Dopo alcuni anni, però, Anna Veronica s'era imbattuta per disgrazia in un altro giovine, malato, ma-linconico, il quale era venuto ad abitare vicino a lei, in tre stanzette umili e ariose, con un terrazzino pieno di fiori. Costui l'aveva chiesta in moglie; ma Anna, onestamente, aveva voluto confessargli tutto; poi non aveva saputo, né forse potuto negargli quella stessa prova d'amore già concessa a un altro. Ma questa volta, dopo la disdetta e l'abbandono, era sopravvenuto lo scandalo, perché Anna s'era incinta del seduttore sentimentale, partito all'improvviso dal paese. Il bimbo, per fortuna, era morto appena nato; Anna, destituita da maestra, aveva per carità ottenuto una misera pensioncina, mercé la quale aveva potuto vivucchiare nella solitudine e nell'ignominia, in cui quel malinconico mi-serabile l'aveva gettata, e s'era rivolta a Dio per perdono.
La signora Agata vedeva spesso in chiesa Anna Veronica, ma fingeva di non accorgersene; Anna in-tendeva e non se n'aveva per male: levava gli occhi in alto, e in essi e sulle labbra le ferveva più viva la preghiera, preghiera nutrita ormai d'amore per tutti, per gli amici e per i nemici, come se toccasse a lei dare prima esempio di perdono.
Avvenuto lo scandalo di Marta, Anna Veronica aveva guardato con altri occhi la signora Agata, le domeniche, a messa. Sapeva che Marta era incinta; e un giorno, uscendo dalla chiesa, s'era accostata umilmente all'amica che pregava ancora e, deponendole in fretta un involtino in grembo, le aveva detto:
– Questo per Marta.
La signora Agata aveva voluto richiamarla; ma Anna s'era voltata appena a salutarla con la mano ed era scappata via. Nell'involtino la signora Agata aveva trovato alcune trine intrecciate all'uncinetto, tre bavaglini ricamati, due cuffiette. N'era rimasta intenerita fino alle lagrime.
Delle molte amiche ch'ella contava, nessuna dopo lo scandalo era rimasta fedele; ma, ecco, in cam-bio, quest'antica amicizia ora si riannodava quasi furtivamente. Difatti, la domenica appresso, aveva riveduto Anna Veronica in chiesa, le si era seduta accanto e, dopo messa, avevano parlato a lungo, commovendosi ai ricordi della loro antica amicizia e alle vicende e ai tristissimi casi occorsi ad am-bedue.
E ora che Francesco Ajala se ne stava sempre rinchiuso, non poteva Anna Veronica venire di nasco-sto a tener compagnia, ad ajutare come un tempo l'amica nei suoi lavori di cucito?
Poteva, sì. Ed ecco, Anna Veronica attraversava in punta di piedi la stanza attigua a quella del rin-chiuso; si liberava del lungo scialle nero da penitente; e sorridendo a Marta e a Maria con due diversi sorrisi:
– Eccomi qua, figliuole mie, – diceva sottovoce. – Che c'è da fare?
Marta assisteva la sera a quel lavoro amoroso della madre e dell'amica; e spesso, fissando quelle fasce, quelle camicine, quei corpettini, quelle cuffiette nel canestro, gli occhi le s'infoscavano o le si riempivano di lagrime silenziose.
Intanto Paolo a bassa voce si sforzava di fare intendere a Maria il congegno della concerìa: la maci-na ritta per schiacciare le bucce di mortella o di sommacco, le trosce per l'addobbo dei cuoj, il mortajo… – o le rifaceva la cronaca del paese. Si era sossopra per le imminenti elezioni politiche. Gregorio Alvignani aveva posato la candidatura.
I Pentàgora spendevano un banco di denari per combatterlo. Manifesti, galoppini, comizii, giornaletti d'occasione…
Lui, Paolo, non sapeva da qual parte tenere, come regolarsi; per non essere coi Pentàgora, non voleva parteggiare per l'avversario dell'Alvignani; a questo intanto non avrebbe mai dato il suo voto; per l'autorità che gli veniva dalla direzione della concerìa, in cui lavoravano più di sessanta operai, non gli pareva ben fatto appartarsi dalla lotta.
La povera Maria fingeva di prestar ascolto, per non dargli dispiacere; e quel supplizio durava per lei una e due ore, spesso.
– Vuoi scommettere, – le disse Marta sorridendo, una sera, prima d'andare a letto, – che Paolo è in-namorato di te?
– Marta! – esclamò Maria, arrossendo fin nel bianco degli occhi. – Come puoi pensare a codeste cose?
Marta scoppiò in una stridula risata:
– Che vuoi? Non lo sai? Sono una donna perduta, io!
– Marta! oh Marta mia, per carità! – gemette Maria, nascondendosi il volto con le mani.
Marta allora le afferrò le braccia, e, scotendola con violenza, le gridò, accesa d'ira:
– Volete farmi impazzire con codesta tragedia che mi rappresentate attorno? L'avete giurato? Volete farmi andar via? Ditelo una buona volta! Me n'andrò, me ne vado subito via, ora stesso… Lasciami, lasciami…
Si lanciò verso l'uscio, trattenuta da Maria. Accorse la madre.
– Zitta, Marta, per carità! Piano… Sei pazza? Dove vuoi andare?
– Giù! Per istrada, a gridar giustizia… Pazza, sì, pazza!
– Non gridar così… Tuo padre ti sentirà!
– Tanto meglio! Mi senta! Perché se ne sta lì rinchiuso? Non per nulla s'è chiuso al bujo: così, come un cieco, mi condanna… Non voglio, non voglio più stare con voi… Così sarete contenti e felici…
Il pianto a un tratto la vinse; si dibatté fino a tarda notte in una tremenda convulsione di nervi, ve-gliata dalla madre e dalla sorella.
VI
Col capo abbandonato su la spalliera dell'ampia poltrona, le belle mani diafane su i bracciuoli, in un'atonìa invincibile, Marta ora si affisava a lungo su qualche mobile della camera; e le pareva che soltanto adesso le si chiarisse, ma stranamente, il significato dei singoli oggetti, e li esaminava, ne concepiva quasi l'esistenza astraendoli dalle relazioni tra essi e lei. Poi gli occhi le si fermavano di nuovo su la madre, su Maria, su Anna Veronica, che lavoravano in silenzio davanti a lei; abbassava le pàlpebre; traeva un lungo sospiro di stanchezza.
Così passavano lentissimamente i giorni della triste attesa.
Finalmente una mattina, poco prima di mezzogiorno, le sopravvennero le doglie.
Gelata, con la fronte molle di sudore, si agitava per la camera, non trovava più luogo da schermire lo spasimo; e intanto guardava con terrore la vecchia levatrice e un'altra donna assistente che prepara-vano il letto. Un fremito di stizza la scoteva tutta a ogni sennato, placido consiglio ch'esse le rivol-gevano.
Nella stanzetta accanto, un giovane medico, alto, pallido, biondiccio, chiamato per consiglio della levatrice molto impensierita per lo stato della partoriente, di nascosto disponeva e apparecchiava con minuziosa cura, su un tavolino, fasce, compresse, fiaschi, tubi elastici, strumenti di strana foggia. E ogni volta, posando con studiata disposizione l'oggetto preparato, pareva dicesse: "E questo è fat-to!". A quando a quando tendeva l'orecchio e sorrideva tra sé per qualche lamento della partoriente.
– Mamma, muojo! – nicchiava Marta, agitando continuamente, regolarmente la testa da un lato all'altro. – Mamma, muojo! Ah, mamma! ah, mamma!
E stringeva forte un braccio della madre che la sorreggeva guardandola con infinita pietà tra le la-grime che