Max era arrivato.
Nell’alzarsi, con gli occhi ancora semi chiusi, si accorse di aver passato la notte in salotto. La madre, svegliatasi poi dopo poche ore nel cuore della notte, aveva deciso di non disturbarlo e di prepararsi in silenzio per andare al lavoro, dove l’attendeva il consueto turno massacrante.
Erano le sette e mezzo in punto e dalla piccola finestra vicino all’ingresso, i raggi del sole entravano timidi.
«Puntuale come un orologio» disse Jack assonnato aprendo la porta.
«Ciao anche a te, allora che facciamo andiamo in periferia?» il paffuto amico, fresco come una rosa, entrò gettandosi sul divano sorridente.
«Certo che andiamo, devo solo preparami.»
Il giovane salì le scale e si chiuse in bagno uscendone dopo pochi minuti, con la faccia ancora bagnata. L’acqua fresca del rubinetto non aveva quasi mai gli effetti sperati, lasciandolo ugualmente stordito almeno per le prime due ore da quando apriva costantemente controvoglia gli occhi.
I vestiti erano ancora dove li aveva lasciati la sera prima, arrotolati sulla sedia.
Quando scese le scale, Max era ancora sul divano ma con un grosso panino tra le mani.
«Sono neanche le otto e sei già lì che mangi, guarda che prima o poi esplodi» disse Jack grattandosi la testa sbadigliando. Per lui era praticamente impossibile far colazione appena sveglio. Il semplice odore del cibo gli penetrava nelle narici fastidiosamente. Il suo maestro, un piccolo uomo orientale dal fisico impeccabile, insisteva, come d'altronde la madre, per fargli capire l’importanza di quel pasto.
“Abbiamo bisogno della nostra benzina anche il mattino. Dobbiamo aver cura del nostro corpo, esso è il tempio della nostra anima e preservarlo nelle migliori condizioni è un nostro dovere” ripeteva sempre l’uomo quando affrontavano il discorso. Jack, sollecitato vivacemente, ci aveva anche provato. I saggi consigli del maestro erano sempre presi alla lettera molto seriamente. Una mattina, convinto più che mai, provò a far colazione con una piccola tazza di latte accompagnata dai suoi cereali preferiti, quelli al cioccolato. Il tentativo, per quanto delizioso, fu un vero buco nell’acqua, portandolo subito ad avere una terribile nausea per l’intera giornata, passata poi con i crampi allo stomaco. Quella fu l’unica volta in cui provò e al posto di aiutarlo, aumentò il suo rifiuto verso il cibo mattutino.
L'amico, a differenza, già alle prime luci dell’alba divorava ogni cosa. Dai dolci ai cibi salati, senza distinzioni. Era un’autentica macchina divoratrice.
I due si guardarono per un secondo e poi scoppiarono a ridere allegramente.
Usciti di casa, Jack si guardò intorno con estrema attenzione. I fatti del giorno precedente erano ancora ben vivi nella sua mente.
«Cosa stai facendo? Aspetti qualcuno?» chiese Max inghiottendo l’ultimo pezzo del suo enorme panino al tacchino immerso nella maionese.
«No, tutto a posto», si limitò il giovane dando l’ultima occhiata. I due imboccarono la strada e si avviarono verso la piazza del mercato. L’aria del mattino, fresca e rigeneratrice, lentamente svegliò del tutto Jack che, con grande sollievo, si passò le mani tra i folti e ondulati capelli corvini. Arrivati nella piazza dove i mercanti avevano già montato le loro bancarelle, decisero di sedersi su una panchina sotto i portici del comune che faceva da sfondo alle attività commerciali quotidiane. Da lì potevano osservare, senza essere visti, la porta del palazzo dove, a detta del povero Miles, abitava il vecchio gobbo.
Vista l'ora, l’uomo non doveva ancora essere sceso. Intendevano aspettarlo, così da poterlo seguire nella speranza di riuscire a capire qualcosa di più sul suo conto.
Nonostante il sole avesse intrapreso già da tempo il suo viaggio verso ovest, del vecchio, nessuna traccia.
Max stava addentando il quinto panino quando la porta della palazzina vicino al bar si aprì lentamente.
Ne uscì una figura gobba e malandata, era lui.
L’uomo si guardò attorno analizzando bene la piazza e Jack, d’istinto, diede all'amico una leggera gomitata, forte al punto giusto per farlo rannicchiare. I due si nascosero velocemente dietro a una delle venti colonne che segnavano il perimetro della facciata principale del comune.
Il gobbo attraversò la piazza come un’ombra superando la meravigliosa fontana di marmo per poi raggiungere la parte opposta. Si guardò ancora intorno sospettoso e dopo essersi accertato che nessuno si fosse accorto della sua presenza, si avviò verso casa di Jack imboccando la strada che i due avevano percorso da neanche un paio d’ore. Il giovane non si stupì, ma venne scosso da dei brividi lungo la schiena.
Quell’uomo voleva qualcosa da sua madre, doveva saperne di più.
La speranza era che il sogno non si avverasse. Non credeva possibile una cosa del genere, era assurdo, ma la paura non ne voleva sapere e, aggressiva, gli strinse lo stomaco.
Per lui, il destino aveva altri piani.
I due ragazzi si gettarono veloci nella piazza rimanendo però sui lati, cercando così di non essere visti. La città era piccola e non volevano assolutamente che qualcuno li notasse. I loro genitori non dovevano sapere in nessun modo che entrambi avevano marinato la scuola. Sarebbe stato impossibile spiegare il motivo di quell’assenza e nessuno li avrebbe presi sul serio. Superato il mercato, rimanendo nascosti tra un cespuglio e l’altro, arrivarono in pochi minuti all’imbocco della strada che portava verso la sua abitazione. Lontano un centinaio di metri, la sagoma del vecchio.
Nel vederlo camminare così lentamente, Jack s'insospettì.
«È davvero inquietante, sai?».
Max buttò la carta del panino nel bidone dell’immondizia ripulendosi nervoso la bocca dalle briciole.
«Lo so amico, lo so!», si limitò Jack teso.
Non riusciva a pensare a niente. Le idee erano confuse, solo una cosa era chiara: seguire l’uomo.
I due riuscirono a non farsi vedere. Macchine e alberi, ottimi nascondigli.
Dopo una ventina di minuti, il vecchio raggiunse il vialetto della casa, attraversò la strada e si sedette sulla panchina di fronte all’abitazione. Il sole gli illuminò il viso rugoso inquietando ancor di più i pedinatori che, tesi come una corda di violino, continuarono a rimanere nascosti.
Accovacciati dietro a un grosso e argentato fuoristrada, pulito maniacalmente da un noto avvocato che spendeva il suo buon capitale in oggetti che neanche usava, i due si fissarono intensamente. Ma dopo qualche istante, si accorsero che da lì non potevano più muoversi.
L’uomo iniziò a guardarsi intorno freneticamente come se stesse aspettando qualcuno.
Quel qualcuno, sicuramente sua madre pensò Jack agitandosi ancor di più.
Guardò l'ora, erano le dieci passate e l'ormai caldo sole non era d'aiuto.
Jack continuò a spiare il vecchio attraverso i vetri del veicolo, non si era accorto della loro presenza, o così sembrava.
«Ho le gambe a pezzi, non riesco più a stare piegato» brontolò Max toccandosi i tondi polpacci. La sua resistenza fisica lasciava a desiderare ma non si poteva pretendere di più dal paffuto ragazzo. A differenza dell’amico e il fisico lo dimostrava, Max non aveva mai fatto nessuno sport se non alle elementari, quando, spinto da una voglia poi scomparsa definitivamente, si era iscritto nella squadra di rugby della scuola. Ma per quanto fosse portato, la svogliataggine aveva avuto il sopravvento, facendogli abbandonare così in pochi mesi l’unica esperienza sportiva.
«Lo so, ma se ci muoviamo adesso rischiamo di farci vedere», lo esortò Jack buttando l’occhio verso il vecchio appostato sul marciapiede opposto al loro.
Max si stravaccò per terra e dopo aver aperto lo zainetto, tirò fuori una merendina al cioccolato, le sue preferite.
«Ma come diavolo fai? Hai già mangiato cinque panini, quanto spazio c’è là dentro?», lo guardò a bocca aperta. Per quanto fossero cresciuti insieme, l’ingordigia dell’amico riusciva sempre a sorprenderlo.
«Dovresti saperlo, quando sono nervoso mangio,