e di allarme, consueto a entrambi nelle scorrerie nelle cacce nei bivacchi. Gli era giunto? La risposta s'era perduta nel rombo?
— Àrdea!
La folla iterava il clamore inebriandosi a quel gioco grazioso e terribile, a quella gara di eleganza e di ardire, a quella disfida allegra tra due volatori della medesima specie. In un golfo ceruleo lunato tra cumuli d'ambra, apparvero entrambi inseguendosi come due cicogne prima della cova librate su le lunghe ali rettilinee; poi si persero bianchi nella vasta bianchezza. E, suscitati dall'esempio, altri si lanciarono, altri si levarono, s'inseguirono. Tutte le tettoie rombarono e soffiarono, gonfie di procella come le case di Eolo. Trascinati a braccia sul campo, trattenuti dalle braccia muscolose, rapiti infine dall'astro violento dell'elica, i velìvoli partivano l'un dopo l'altro a conquistare il cielo magnifico, taluni giallicci come i capovaccai, taluni rossastri come i fiamminghi, taluni cinerognoli come le gru. Scoccavano come i silvani, volteggiavano come i rapaci, strisciavano come le gralle. Nello strepito imitavano da lungi l'applauso come i colombi, il tintinno come i cigni, la raffica come le aquile. Tutte le forze del sogno gonfiavano il cuore dei Terrestri rivolti all'Assunzione dell'Uomo. L'anima immensa aveva valicato il secolo, accelerato il tempo, profondato la vista nel futuro, inaugurato la novissima età. Il cielo era divenuto il suo terzo regno, non conquiso col travaglio dei macigni titanici ma col fulmine fatto schiavo.
E il cielo viveva come la moltitudine, come quella ebro di maraviglia e di gioia, di superbia e di terrore, di violenza e d'infinito. Era uno di quei sublimi cieli d'Italia che rinnovano in un'ora le trasfigurazioni secolari degli artefici operate nelle volte dei palagi e nelle cupole dei templi, creano e distruggono tutte le imagini della grandezza, conciliano l'argentea voluttà del Veronese e la terribilità pietrosa del Buonarroto. Le nuvole erano un'architettura e una stirpe, una materia foggiata dallo statuario e dal fìgulo, una gerarchia di angeli, una genia di mostri, un paradiso di fiori. Sorgevano dai monti, si adeguavano alle colline, si laceravano alle cime dei pioppi. Simili a trombe d'acqua lattescente, vibravano di luce in sommo come le sensitive trasparenze degli esseri marini abitate dall'inquietudine di un fuoco spirtale. Simili alla carne giunonia nel punto della metamorfosi che ingannò il Lapite reso folle dal nettare, s'irradiavano d'un sangue improvviso; poi sùbito si coprivano di macchie smorticce come le squame caduche dalla pelle infetta di lebbra. Simili a un'argilla diafana sul tagliere d'un vasaio che la foggiasse con dita invisibili, prendevano la forma dell'urna; e un'ansa nasceva dal fianco, docile s'incurvava appiccandosi al labbro, nel vano includeva l'azzurro, e tutto lo sparso azzurro intorno non era come quel poco. Altre simigliavano altre figure altre creature altre favole altre arti. Il mondo dei miti e dei sogni rioccupava la cavità del cielo, evocato dal nuovo sogno e dal nuovo mito.
Allora fu visto uno dei grandi uccelli dedàlei inchinarsi verso terra, risollevarsi, sbandare, nella virata bassa urtare contro il suolo, restare immobile su l'ala infranta con alzata l'ala intatta senza il battito dell'agonia, esanime avanzo di vergelle e di canape, lordo di olio nero. L'uomo balzò dai rottami, si scrollò, guardò la sua mano sanguinante, e sorrise.
Allora fu visto un altro velìvolo, come quei rapaci notturni che abbarbagliati dal sole cozzano contro l'ostacolo e tramortiscono, precipitarsi contro lo steccato, abbatterlo per un lungo tratto fra alte strida, capovolgersi con tutte le tele lacere, tutti i nervi recisi, tutte le ossature stronche, silenzioso dopo lo stroscio in un cerchio d'orrore, muto sfasciume sul suo cuore di metallo ancor caldo e fumante. La folla sbigottita e avida fiutò il cadavere, non apparendo dell'uomo se non le gambe prese nei fili d'acciaio aggrovigliati. Ma quegli fu tratto dall'intrico, fu dissepolto, fu rimesso in piedi. Pallidissimo, vacillò, si ripiegò, mozzò tra i denti il ruggito dello spasimo, sotto le dita che lo palpavano. Aveva il femore in frantumi. Due soldati lo trasportarono sopra una delle tavole abbattute dal cozzo, supino con gli occhi verso le nubi. L'ombra d'un volo vittorioso passò su la sua disperazione.
Allora fu visto di sùbito apprendersi ad altre ali il fuoco senza colore, che non appariva nel giorno se non pel rapido annerirsi e involarsi della tela su per le nervature di faggio e di frassino già crepitanti come sermenti. Divampava nella rapidità l'incendio, scoppiando le fiamme dalle valvole semiaperte. Come una grande falarica avvolta di stracci intrisi in olio incendiario, scagliata dalla corda della balista, l'ordegno percosse la terra con tale impeto che vi s'addentrò. Esplose nell'urto il serbatoio inondando la carcassa schiantata e l'uomo vivo. La fusoliera ardeva come un brulotto. Nella coda simile alla cocca del quadrello, erette le timoniere stridivano.
E allora fu visto l'uomo vivo avviluppato dal fuoco senza colore rotolarsi su l'erbe arsicce con una furia così selvaggia che il suo cranio dirompeva il suolo friabile. La folla urlò, presa alle viscere non dalla pietà pel morituro ma dalla frenesia del giuoco mortale. Un altro uomo, che volava nella nube, con un colpo temerario del timone d'altura calò giù a piombo come l'avvoltoio sul pasto; a poche braccia da terra si librò seguendo lo strazio dell'affocato che ancóra s'avvolgeva sopra sé stesso invincibilmente; si sporse alquanto per riconoscerlo; lo guardò spento arrestarsi; rapido s'impennò, risalì per l'aria, s'inazzurrò nell'ombra, si dorò nel sole, continuò la sua rotta. Lo raggiunse l'urlo della folla in delirio.
— Tarsis! Tarsis!
Il soffocatore della vampa era sorto in piedi, nericcio, fumido, oleoso, coi capelli strinati, con le vesti incarbonite, con le mani cotte, atrocemente vivo. A duecento metri da lui, del suo ordegno distrutto non rimaneva se non il motore arroventato fra i tubi contorti e divelti. Egli guardò le sue mani che avevano strozzato il fuoco ribelle.
Un delirio crudele venò di rosso i mille e mille e mille occhi levati verso il convesso circo celeste. La cruenta gioia circense rifluì nei precordii ansiosi. Un sùbito aumento di vita estuò sotto l'imminenza della morte. Le ali dell'uomo parvero non più fendere il cielo insensibile ma l'anima oceanica della specie, gonfiata come una marea sino alla linea del più alto volo. Gli elementi asserviti, le forze naturali sottomesse, le divinità constrette erano pronti sempre a insorgere per lacerare, per annientare il fragile tiranno, come quelle belve prigioni che si scagliano contro il domatore se a pena egli batta le palpebre o distolga la punta dello sguardo. La lotta era incessante, il pericolo era onnipresente. Come l'Ortìa sanguinaria dell'antica Tauride, l'Ignoto non stava assiso ma ritto in piedi su l'ara esigendo i sacrifizii umani. Le vittime osavano guardarlo con pupille inflessibili, fino al limite del Buio. Che erano mai al paragone i giuochi dell'anfiteatro? L'uomo non più andava alle fiere nell'arena angusta, ma alle macchine micidiali su le vie della terra del mare e del cielo; e il pollice riverso era di continuo sopra lui. Un'ombra tragica e una luce tragica a volta a volta oscuravano e irraggiavano lo spazio.
— Tarsis! Tarsis!
L'Àrdea continuava la sua rotta, girava le mète nel decimoquinto giro. Il Latino era per ritogliere il primato al Barbaro. Nella calca efimera e indistinta le radici eterne della stirpe fremettero. Tutti i cuori furono alati per sostenere il volo eroico. Tutte le gole riverse gittarono al prode il suo nome come un soffio sonante che incitasse la rapidità. Gli comandarono di vincere.
— Tarsis!
Egli sosteneva il volo con la sua pazienza, incitava la rapidità con la sua febbre. A quando a quando, contro la nuvola o contro l'azzurro, il suo busto emergente appariva proteso come per l'istinto di acuirsi, di sfuggire al contrasto dell'aria, di adeguarsi alla forma del fuso e del dardo. E gli occhi più perspicaci o i meglio armati scorgevano il suo capo scoperto, a cui il vento aveva rapito il camaglio; scorgevano il suo viso affilato, onde pareva esalarsi l'ardore dello sforzo come di fra le alette dei cilindri il calore dell'attrito, quel viso fatto quasi di fluida violenza, quasi che il vento rovesciasse indietro non soltanto i capelli di su la fronte ma dal mento alle tempie tutte le fibre dei muscoli palesi.
— Tarsis!
Egli era omai solo. Il cielo ridiveniva deserto. Qua e là sul campo i velìvoli s'atterravano: si posavano come migratori affaticati, cadevano sul fianco o sul rostro come falchi feriti. Una luce fulva, lo splendore distante delle biade mature, si spandeva su la brughiera selvaggia. L'abete degli steccati brillava come oro forbitissimo. Le mura delle cascine, le facce delle chiese e delle ville, i culmini dei campanili e delle torri in lontananza ardevano. Le ombre delle mète, delle travi, delle antenne s'allungavano.
Egli era solo: non vedeva