Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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occhi chiari e sbigottiti.

      — Si guardi, La prego, signorina! — egli gridò, con un gesto brusco. — Non rimanga là!

      Vana non indietreggiò ma avanzò guizzando fra i lembi che garrivano.

      — C'è pericolo?

      — Se il legno dell'elica si rompe o si scheggia, la forza del più piccolo frammento scagliato è incalcolabile.

      Ella spalancò i grandi occhi pallidi come gli opali d'acqua. I meccanici la guardavano, tenendo con le braccia nerastre e untuose le traverse della fusoliera. Una striscia obliqua di sole, come già nelle aule ducali di Mantova, penetrava per una fenditura della parete rivelando il nervo d'un'ala, brillando nelle sàrtie d'acciaio, nei quattro metalli del motore bianco giallo rosso bruno.

      — Può accadere? E se l'elica si rompe mentre si vola?

      Ella aveva la voce un poco tremula; e le pareva che la paglia del suo cappello inghirlandato risonasse come il bronzo d'una campana.

      — Preghi il Cielo che questo non m'accada mai — rispose il timoniere celeste.

      Egli era come in un intervallo della realtà, dinanzi a quella creatura quasi sconosciuta, in una condizione dello spirito simile all'indeterminato ricordarsi.

      — La morte dunque è sempre là?

      — Là e dovunque.

      — Là più che dovunque.

      — È la compagna d'ogni gioco che valga la pena d'esser giocato.

      — È orribile.

      A un tratto il motore s'arrestò; le pieghe della cortina ebbero pace; la polvere decadde; i muscoli nelle braccia fosche s'allentarono; l'elica divina non fu se non un'asse verticale dipinta di colore d'aria. Il silenzio parve uccidere un grande essere fantastico che riempisse di sé tutto lo spazio chiuso, una specie di grande angelo abbagliante che si fosse dibattuto sotto le travi e abbattuto e spento in terra come un cencio terreo. E la striscia di sole fu triste, come nella stanza ducale; e apparvero le cose tristi ed eloquenti: le brande di ferro chiuse, onde pendevano i lenzuoli gualciti, le coperte di lana bigia; le rozze scarpe arrossate e polverose; i vecchi abiti appesi ai chiodi, quasi afflosciati da una squallida stanchezza; e qua e là le scatole di latta, i pezzi di carta, gli stracci, una catinella, una spugna, un fiasco vuoto.

      — Sia prudente — disse Vana abbassando la voce che tuttavia era tremula, quasi supplichevole, d'una supplicazione inopportuna.

      — La prudenza non vale. Soli valgono l'istinto il coraggio e la sorte.

      — Il Suo amico....

      Ella s'interruppe; poi riprese, rapida.

      — Il Suo amico Tarsis parte prima di Lei?

      — I meccanici trasportano già l'apparecchio sul campo di slancio.

      — È troppo ardito.

      — Non bisogna mai tremare per lui.

      — Perché?

      — Non si sa perché certi uomini nascano al pericolo, che li fa immuni.

      — Crede questo?

      — Certo.

      — Anche per sé?

      — Anche per me. A Madura, nell'ombra della pagoda di Vichnou, un indovino dalla testa rasa, masticando le foglie chiare del betel, ci presagì che, avendo vissuto della stessa vita, moriremo della stessa morte.

      — Crede al presagio?

      — Certo.

      — E perché sorride?

      — Perché ora mi ricordo....

      — Di che si ricorda?

      S'udiva giungere dagli steccati il clamore della moltitudine, ora prossimo ora lontano. Il cavallo d'un cavalleggere nitrì. Il galoppo d'una pattuglia risonò sordamente su la brughiera.

      — Giovanni, è pieno? — domandò Giulio Cambiaso all'uomo che versava l'essenza nel serbatoio.

      Aveva quasi forzata la sua attenzione verso quella realtà, come per vincere l'indefinibile sentimento di assenza e di distanza ond'era occupata la profondità della sua vita. Egli rivedeva le chiostre della pagoda, le piscine gremite di torsi ignudi e di teste rase, il popolo d'iddii di dèmoni di nimostri scolpito nelle lunghe logge cupe, nei tabernacoli nelle nicchie nei pilastri, lordato dagli escrementi dei pipistrelli innumerevoli. Riudiva il mugghio dei buoi, il barrito degli elefanti che s'inginocchiavano nel loro fimo.

      — Manca poco — rispose l'uomo, estraendo la piccola canna introdotta nel fóro del serbatoio per misurare la quantità.

      — Sia pieno, fino al tappo.

      L'uomo, ritto sopra una capra, col volto lucido di sudore, riprese a versare pianamente l'essenza dal vaso cubico nell'imbuto avvolto in un filtro di tela giallastra. Come la striscia di sole passava a quell'altezza, si vedeva il liquido colare tra le dita ferme luccicando.

      — Di che si ricorda? Dica! — soggiunse Vana con timida insistenza, arrossendo lievemente sotto il cappello tessalico.

      — Mi ricordo che, mentre l'indovino proferiva il presagio profumato dal gengivario, una giovane Indiana dalle pastoie d'argento era presso il banco di un mercante; e si volse verso di noi.

      Egli affisava in lei uno sguardo di sogno, un sorriso smarrito.

      — Olivigna, se bene lisciata con la radice della curcuma, aveva quella purità di lineamenti che è propria delle più delicate miniature indo-persiane dove la Bella s'inchina a bevere l'anima della rosa mentre passa il Cavaliere in drappi d'oro sul palafreno di color cilestrino balzano da tre. Come Le somigliava!

      — Oh no!

      — Se chiudo gli occhi, la rivedo viva. Se li apro, la rivedo più viva.

       — Oh no!

      — Oggi è senza gioielli; allora n'era carica, per la festa sacra. Comperava dal mercante il croco purpureo, la mandorla dell'areca ridotta in polvere, la ghirlanda di rose gialle.

      — Oh no! Quelle che porto?

      Ne aveva d'arida seta intorno al cappello, di fresco roseto alla cintura.

      — Quelle. Ma erano per l'offerta, erano per gli idoli. Udimmo il tintinno dei cerchi d'argento alle caviglie, quando si mosse per andare verso le due grandi statue levigate di diorite già mezzo sepolte sotto i fiori. Una rosa le cadde giù pel suo panno azzurro, su le lastre che riflettevano i suoi piedi nudi. Lesto mi chinai per raccoglierla, ma la devota fu più lesta di me.

      — Eccola — disse Vana spiccando una rosa gialla dalla sua cintola azzurra come l'oltramarino smortito nei fondi delle lunette sacre.

      E la porse all'evocatore. E si stupì che quella parola e quel gesto si fossero partiti dallo spirito misterioso ond'era piena, da un indicibile spirito di ricordanza e di ritornanza suscitato senza causa. Ma quando vide la sua rosa all'occhiello di quell'uomo quasi sconosciuto, voleva soggiungere: «No, no! Ho fatto per gioco; non so perché l'ho fatto. Me la renda. La getti. Sono una piccola sciocca».

       E tuttavia si piaceva e s'indugiava nella finzione; come sua sorella, come ogni donna viva, si piaceva d'entrare e d'intrattenersi in un simulacro insolito di sé, in una forma imaginaria di esistenza. Per prolungare l'incanto voleva soggiungere: «E poi? Dove andò l'Indiana dalle pastoie d'argento, ch'era fine come le miniature? che fece del suo croco, della sua polvere, della sua ghirlanda?» Ella sentiva il colore olivigno del suo proprio volto, la linea ovale della sua propria finezza; imaginava il freddo delle lastre polite sotto le piante dei suoi piedi nudi; intravedeva qualcosa di vago, come una speranza e una paura senza oggetto, come un evento senza tempo, come una enormità nascosta che somigliava quegli enormi idoli di pietra nascosti dai fiori. Né meno fantastica le pareva la sua presenza tra le cose presenti. Prima di guizzare tra i lembi della cortina, la sua figura era forse più dissimile da quella alzata presso il banco del mercante nella