Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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e poi di sùbito lo gonfiava uno smisurato impeto come se moltitudini di ferrei cavalieri gridando irrompessero dalle profondità per galoppare su tutta la terra.

      — Isa, le tue mani sono di perfetto marmo!

      Meravigliose erano le due mani ignude su la ruggine della ringhiera, levigate nei nodelli, marmoree veramente, come abbandonate dalla vita sanguigna e trasfigurate da un'arte sublime. Ella era una creatura tutta palpitante e anelante di tristezza, di desiderio, di ricordanza, di timore, di promessa, con due mani di statua.

      — La puntura ti duole ancóra?

      — Mi brucia soltanto.

      — Ti sei ferita due volte. Aspèttati la terza ferita.

      La mano di marmo disegnò un gesto di supplice verso la bellezza della candida sera; poi col dorso appena appena toccò il labbro che non sanguinava più. Il saettìo disperato delle rondini stridì su l'immobile argento. Il capo del fratello s'inclinò verso la spalla diletta. Egli aspettava un dono che non gli era dato, e non sapeva quale; e la voce della sua anima era un alto lamento, se bene si esalasse in piccole parole.

      — Che faremo? Mi chiuderete laggiù in una stanza d'albergo, fra poco? Io non voglio dormire.

      Paolo Tarsis guardava quel volto di giovine iddio decaduto che travagliavano così torbidamente gli affanni umani; e il rancore dei suoi trentacinque anni esperti e indurati si appesantiva dinanzi a quella grazia inquieta come una convalescenza febrile. E ogni attitudine dell'adolescente verso la sorella gli moveva un malessere indefinibile.

      — Vieni con me su la brughiera — disse.

      — A vegliare la veglia d'Icaro?

      — Ad aspettare l'alba.

      — Sotto un'ala del tuo grande airone?

      — Alla diana farò un volo di prova. Le prime stelle e le ultime sono propizie a quest'arte.

      — Espero è il tuo buon genio?

      Aldo non guardava il costruttore d'ali ma, col capo presso l'omero della sorella, era fiso nel cielo di Vergilio. Tutto era puro come nella più divina delle ecloghe. Non un soffio moveva le cime delle canne, le vermene dei giunchi, le fiammelle dei papaveri, lo specchio delle acque. Solo il coro delle rane diffondeva il senso del moto in forma di ritmo, simile alla vibrazione della bianchezza.

      — Quale altro cielo, se non questo, si chiamerà firmamento? Stasera potresti volare all'infinito. Ah, insegnami!

      Trasognato egli si volse, e guardò l'uomo: riconobbe l'ossatura della volontà temeraria, la biliosa faccia scarnita dall'ardore di vincere, la pupilla fulminea del predatore, quegli angoli vivi che parevano fatti per fendere come i conii la resistenza, quelle dure mascelle che per contrasto portavano la carne rossa della bocca come un frutto molle in una tenaglia d'acciaio. E uno sgomento subitaneo lo invase, ché non era quegli il suo compagno né il suo maestro.

      — T'insegnerò — disse Paolo Tarsis con l'accento della condiscendenza, come chi risponda a un bimbo che domandi un balocco; e sorrise.

      L'ombra cadde su le ciglia del trasognato, e gli riempì l'orecchio un confuso rombo, e il cuore gli pulsò contro la gola; ché egli aveva scorto, tra l'uno e l'altro dente di colui che sorrideva, un filo di sangue, un sottilissimo grumo, e un lieve gonfiore lividiccio nel labbro rilevato dal sorriso.

      — Aldo, che hai? — gli domandò Vana. — Come sei divenuto pallido!

      L'imagine del bacio selvaggio gli si creò nel lampo della divinazione.

      — Sembro pallido? È questa luce. Non ho nulla. Anche voi sembrate così.

      Non dominava il suo sgomento cieco. Le giunture gli si scioglievano come nel pànico. Si chinò su la ringhiera, e credette che il battito del suo polso risonasse sul ferro come il martello su l'incudine. Lo stormo frenetico delle rondini s'era allontanato perdendosi ai confini della palude, ed egli l'udì tornare verso la loggia come una forza ruinosa e strepitosa che fosse per trascinarlo seco. Negli attimi d'attesa rivide le cose più lontane della sua infanzia. Poi lo scagliamento disperato gli trapassò tutta l'anima tramortita.

      «Addio! Addio!» ripeteva in sé, ma senza sapere come la parola gli si formasse dentro e gli si staccasse dal cuore; ché non era se non suono interno di gemito, simile a quello inarticolato che la tortura strappa alla carne vile. «Addio! Addio!»

      E raccolse un po' di forza per ricomporre il suo viso, per dissimulare l'ambascia; si sollevò, si volse come a guardare la desolazione del cortile erboso; fece qualche passo furtivo verso la porta che s'empieva d'ombra. Sentiva pesare entro di sé un pianto accumulato. Il bisogno folle di sfuggire lo prese, lo cacciò tra le pareti ignote, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. Da prima corse anelante, con un velo su gli occhi, come chi abbia il fuoco appreso alle vesti e più avvampi nell'aura della fuga. Poi le figure superstiti nell'enormità di quella morte escirono dall'ombra e l'assalirono, e s'ingigantirono del suo dolore; e i contorcimenti dei grandi corpi rossastri nelle mura piene di battaglia furono come l'agitazione della sua demenza; e gli squarci e le fenditure e i mucchi furono come i resti del suo crollo; e tutto l'oro scolpito e sospeso e infranto sul suo capo fu come la perdizione del suo sogno ponderoso. Ed egli andava andava, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. E a tratti, come se soffiasse la ràffica, gli giungeva l'alto canto palustre, lo stridore del saettamento ostinato, la squilla della salutazione angelica, e il gemito stesso della sua propria anima. «Addio! Addio!»

      Non l'ombra entrava per le finestre ma si creava dentro, ma sorgeva da ogni cavità, occupava i luoghi profondi, s'accumulava come una cenere fosca, s'addensava come una moltitudine tacita. Una porta fu piena di minaccia; una scala fu piena di terrore; un corridoio fu come un abisso.

      — Isabella! Isabella!

      Il nome echeggiò come in una caverna; ma, dopo, la vita del silenzio si moltiplicò, ebbe mille volti sparenti.

      — Isabella!

      Il nome cadde senza risonanza, come qualcosa che s'afflosci. Un chiarore violaceo appariva pel tetto squarciato. Nell'ombra era un aliare molle di nottole. Vene di gelo vi s'insinuavano come se pei crepacci stillasse l'acqua degli stagni.

      — Isabella!

      Smarrito nell'intrico della ruina, egli barcollava su i pavimenti sconnessi, urtava contro le travature cadute, varcava gli usci palpando gli stipiti freddi, rabbrividiva per tutte le ossa appressandosi alle forme ignote. E sopra il terrore l'imagine del bacio selvaggio, l'imagine della voluttà sanguigna, si apriva dentro le sue pupille con l'intermittenza e la violenza dei bagliori in occhi infermi; ché forse egli era passato, ché forse egli passava là dove s'eran congiunte le bocche crudeli. E il mare del pianto gli ondeggiava a sommo del petto fragile, a sommo dell'anima senza limite; e per ricacciare il singhiozzo egli ripeteva quel nome che pur dianzi aveva risonato nel riso come gli acini balzanti d'una collana disciolta.

      — Isabella!

      — Aldo, Aldo, dove sei? dove sei? Ti sei perduto?

      Trasaltò egli udendo la voce angosciosa che rispondeva all'orribile angoscia; e si volse; e in fondo all'andito lùgubre scorse un'ombra nell'ombra.

      — O Vana!

      E si corsero incontro; e non parlarono, perché entrambi traboccavano di pianto. E furono soli; e non s'udì alcun altro passo fuorché quello cauto del vecchio. E non si guardarono ma s'abbracciarono disperatamente.

      Or d'improvviso i Latini si ricordavano della prima ala d'uomo caduta sul Mediterraneo, dell'ala icaria composta con le verghe dell'avellano, con l'omento secco del bue, con le penne maestre degli uccelli rapaci. «Un'ala sul Mare è solitaria» aveva gridato il poeta della stirpe, alle vedette.

      Chi la raccoglierà? Chi con più forte

      lega saprà rigiugnere le penne

      sparse per ritentare