Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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— Isabella! Isabella!

      Aldo leggeva il nome nelle targhette che allacciava il meandro d'ulivo.

      — Eri anche allora la più elegante dama d'Italia — disse egli adulando la giovine donna come soleva. — Oggi hai per rivali Luisa Merati, Ottavia Santeverino, Doretta Ladinì; allora gareggiavi con Beatrice Sforza, con Renata d'Este, con Lucrezia Borgia. Allora la marchesa di Cotrone ti mandava a chiedere per modello una sbèrnia, come oggi Giacinta Cesi ti manda a chiedere un mantello. Che erano al confronto i grandi corredi d'Ippolita Sforza, di Bianca Maria Sforza e di Leonora d'Aragona? Ma quella Beatrice era veramente la spina del tuo cuore. S'era fatti ottanta quattro vestiti nuovi in due anni! Tu l'anno scorso per le quattro stagioni te ne facesti novantatre. E la Borgia, quando andò sposa ad Alfonso aveva con sé duecento camicie meravigliose! Tu superasti e l'una e l'altra. Chiedevi ai tuoi corrispondenti milanesi e ferraresi notizie minutissime delle due duchesse, in vestiario e in biancheria, per non restar mai indietro. Anche allora tu eri una inventrice di fogge nuove. Tu inventavi le mode. Portasti a Roma quella della carrozza. Avevi il desiderio smanioso delle novità eleganti. Ti raccomandavi ai tuoi fornitori perché cercassero «di cavar de sotto terra qualche cosetta galantissima». Anche allora amavi gli smeraldi, ed eri riuscita a possedere il più bello dell'epoca. A Venezia, a Milano, a Ferrara avevi mediatori con orefici. Non ti contentavi d'aver le più belle gioie ma le volevi squisitamente legate: anelli, collane, cinture, bottoni, braccialetti, catene, frange, sigilli. Il tuo orefice prediletto fu quell'ebreo convertito, di nome Ercole de' Fedeli, che fece lavori di niello e di cesello incomparabili, tra cui forse la famosa spada di Cesare Borgia, ch'è in Casa Caetani, e la cinquedea del marchese di Mantova, ch'è al Louvre.

      Egli pareva aver bevuto il vino di quattro cent'anni in uno di quei vasi di calcedonio o di diaspro forniti d'oro che la Estense aveva raccolti innumerevoli negli armarii della Grotta in Corte Vecchia. Era ebro di passato ma provava un piacere quasi malsano nel mescolare le cose vive alle cose morte, nel confondere le due eleganze, nel frugare le due intimità. Ella lo secondava, quasi per una volontà d'inesistenza, con le ciglia senza palpito e col sorriso durevole dei ritratti magnetici.

      — Ricordami ancóra! — ella diceva per incitarlo, a ogni intervallo, come s'egli non le narrasse cose nuove ma le risvegliasse la memoria.

      — La duchessa di Camerino, Caterina Cibo, faceva fare a Mantova i suoi vestiti sotto la tua sorveglianza come ora Giacinta Cesi non va dalla sarta se tu non l'accompagni.

      — Ricordami!

      — Nel tuo viaggio di Francia, l'ammirazione per le tue guise fu unanime, come oggi gli occhi delle Parigine ti divorano quando tu esci da un teatro o entri in un salotto ben frequentato. Perfino Francesco I ti chiese qualche veste da donare alle sue donne; e Lucrezia Borgia, la tua rivale, dovette rivolgersi a te per avere un ventaglio di bacchette d'oro con piume nere di struzzo, dopo aver cercato invano d'imitare quella tua «capigliara» a turbante che porti nel ritratto tizianesco.

      — Avevo i capelli che ho, castagni?

      — Castagni con forti riflessi biondi; e, per averli tanto tempo gonfiati a turbante, ora li serri in due trecce e li giri e li schiacci con le forcine e ti fai una piccola piccola testa che mi piace assai più.

      — Belle mani?

      — Più belle ora: ti si sono smagrite e allungate. La destra dipinta dal Vecellio, con l'anello nell'indice, ha fini le dita ma un po' grasso il carpo. Per curarle, facevi ricerca delle forbici più sottili e aguzze e delle «lime da ungie» più delicate. E ordinavi i tuoi guanti a Ocagna e a Valenza, i più morbidi e i più odorosi del mondo.

       — Perché amavo anche allora i profumi.

      — N'eri folle. Li componevi tu stessa. Ambivi il nome di «perfecta perfumera». La tua «compositione» era d'un'eccellenza insuperabile. Tutti imploravano la grazia d'un bussoletto. Ne donavi a re, a regine, a cardinali, a principi, a poeti. E il tuo Federico, quand'era in Francia, non ti chiedeva mai denari senza chiederti profumi e tanto spesso gli uni, credo, quanto gli altri.

      — Eri ben tu Federico allora? Ti riconosco.

      Risero forte entrambi, prendendosi le mani, guardandosi negli occhi splendidi.

      — Ma spesso tu mandavi invece di denari un bussoletto, perch'eri piena di debiti.

      — Oh no!

      — Sì, sì; ne avevi fin sopra ai capelli, affogavi.

      — Federico!

      — Avevi sempre una voglia pazza di comprare tutto quello che ti piaceva; e poi non potevi pagare. Allora, debiti su debiti.

      — Non è vero.

      — Perfino con Sua Santità, e poi col Sermoneta, col Chigi.... So tutto. C'è la lettera al Trìssino. «Miseria extrema di dinari....

      — Mi smungeva Federico.

      .... per non haver ancora restituiti molti ducati tolti in prestito....»

       — Federico!

      — E mettevi le gioie in pegno.

      Ridevano come monelli, con una gaiezza irresistibile che travolgeva il sogno, con qualcosa di furbesco nell'angolo dell'occhio, quasi fossero soli, immemori dei due che dal vano della finestra parevano assistere a una scena di mimi.

      — E le maschere, le maschere!

      — Quali maschere?

      — Come le amavi! Ne fabbricavano tante nella tua Ferrara. Ne mandasti cento in dono al Valentino: cento maschere a Cesare Borgia!

      — Quanto mi piace questo! — disse Isabella con un sùbito mutamento di tono, perché aveva sentito dietro di sé l'ostilità dei due spettatori ed era di nuovo pronta a far soffrire. — Se ne ritrovassi qualcuna dentro gli armadii?

      — Una vecchia maschera, una vecchia veste, una vecchia catena. Apri, apri.

      Ella aperse. Le ributtò il triste odore.

      — È pieno di ragnateli — disse, e richiuse.

      — Sono certo i ricami portentosi di quella femminetta greca che avesti da Costanza d'Avalos.

      E fu l'ultimo sorriso della finzione; ché dall'armadio aperto un soffio di malinconia s'era diffuso, e lo spirito delle Pause, il canto senza parole, l'ardore senza concento.

       — Andiamo, andiamo.

      Ella ripassò per la porta gemmea, ritraversò la cassa dorata del clavicembalo senza tastiera, ridiscese la scaletta di tredici gradini. La seguivano gli altri, in silènzio. I passi risonarono per un lungo andito bianco; poi giù per un'altra scala desolata; poi per l'ombra d'un'aula cinta di nicchie in forma di conche, verdastra come una caverna marina. Una porta stridette su cardini rugginosi; e tutto l'argento del vespero brillò fra le due imposte, per mezzo a un gran ragnatelo lacerato; e su la pietra giacevano un pipistrello nericcio e una lucertola grigiastra, e l'una guizzò via e l'altro prese il volo, come se i due lembi del ragnatelo si fossero di sùbito animati.

      — Sempre si rinnova l'incanto?

      Si sporse nell'aperta loggia l'adolescente con un profondo respiro.

      — La bellezza non ha pietà di noi? non ci dà tregua?

      Tutti respiravano verso il cielo di Vergilio, ricevevano l'immensa pace sul petto in tumulto.

      — Il giorno senza fine!

      Un alito fresco saliva dai salci dalle canne dai giunchi, prossimo come quel d'una bocca silvana che abbia bevuto a gorgate il gelo della fonte senza asciugarsi.

      — Che faremo? Che faremo?

       Erano tutt'e quattro in uno dei poggiuoli inferriati a vista della palude. Dietro di loro taceva nell'abbandono la vasta corte erbosa delle antiche giostre, circondata dalle logge a colonne avvolte che avevano udito il ringhio dei barbareschi. Dinanzi, una sovrana purità si perpetuava come in un mondo immune dall'ombra; e la luce era sonora fino al culmine del cristallo empireo.

      — Sorella, sorella,