Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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la finestra lo stormo a saetta, egli era percorso da una sorta d'impazienza muscolare e riudiva in sé il sibilo dell'elica.

      — Quanto mi piace questo! — disse Isabella dopo una pausa, come una che abbia morso la polpa d'un frutto e ne lodi la bontà con la bocca bagnata di succo; ché la sua voce rendeva sensuali anche le sottigliezze dell'intelligenza.

      — Rimaniamo qui? — disse Aldo. — Riprendi possesso del tuo Paradiso? Stanotte avremo la più grande sinfonia di rane che mai si possa udire. Le rane mantovane sono famosissime: superano perfino le ravennati in arte armonica.

      — È la notte più breve.

      — Io non voglio dormire.

      Di nuovo egli s'era appressato alla sorella con la grazia d'un paggio, seguito dall'inquietudine di Paolo. Era tanto bello che avanzava di bellezza le due creature del suo sangue. La forma della sua fronte su l'arco dei sopraccigli era simile a quella dei giovini Immortali; e chi la guardava non poteva cessare di guardarla, ché involontariamente risaliva di continuo a quella perfezione. Ond'egli, accorgendosi che di continuo lo sguardo altrui non s'affisava ne' suoi occhi ma più su de' suoi occhi, aveva il sentimento di portare una corona ammirabile; e ne pareva accresciuta la fiamma della sua spiritualità come la leggerezza delle sue movenze.

      — Bisogna dunque andare? — disse Isabella.

      E rimirò la filigrana del soffitto, ove ancora l'ape dimenticata bombiva come lungh'esse le cellette dell'alveare. E rivide negli scomparti il suo nome, il motto magnanimo, l'Alfa e l'Omega, l'enigmatico numero XXVII, i segni musicali, il candelabro a triangolo, la sigla intrecciata, il mazzo di polizze bianche.

      — Nec spe nec metu! Ma io spero quel che temo, e temo quel che spero.

      — È per te — disse Aldo — quel madrigale di Gerolamo Belli d'Argenta che Vana ti canterà: «L'onde de' miei pensier portano il core Hor ai lidi di speme hor di paura....»

      E il sogno ebbe un torbido intervallo. E tutti gli occhi chiari s'incontrarono fuggevolmente.

      — Che vuol significare il numero ventisette? — chiese Vana, che nella confusione del suo spirito si volgeva con un'ansia superstiziosa verso gli indizii e i presagi.

      — Non me ne rammento — rispose Isabella. — Ma è un numero che forse non dimenticherò più.

      E guardò il taciturno per ricordargli che il ventisette era la data prossima della gara suprema nella Festa dedàlea. E lo sguardo impose l'attesa, promise: «Dopo»; e fu per lui come l'ondeggiare delle lunghe fiamme in cima alle aste delle mète aeree.

      — E il fascio di cartelline? — chiese Vana.

      — Sono le polizzette del gioco di ventura — rispose Aldo — quelle che si traggono dall'urna cieca della sorte.

       — Bianche?

      — Sì, bianche.

      — Cedimi questa impresa, Isabella — disse Vana.

      — O non piuttosto quella delle Pause? — disse Aldo.

      — Che è l'impresa delle Pause?

      — Quella dei segni musicali su la rigata, che vedi là; ed era la più cara a Isabella.

      — Tu che decifri le intavolature, la sai lèggere?

      L'adolescente si volse e balzò a sedere sul largo davanzale per essere più presso alla cornice ove poggiava il cielo dell'imbotte scolpito ad anelli a rosoni a legacci, ne' cui fondi eran ripetute tutte le imprese fuorché quella delle Pause ricorrente sola nel fregio vaghissimo.

      — Se non sbaglio, c'è la chiave di contralto; e poi ci sono i segni dei quattro tempi; e poi i segni di tre pause di valore decrescente: due, una, mezza; e poi un sospiro del valore di una minima; e poi le tre pause in ordine inverso; e infine il segno del ritornello doppio.

      Tutti i volti erano in su, pensosi; tutti gli occhi chiari scrutavano il cartiglio.

      — È la notazione del silenzio — fece Vana.

      — La canzone che non canterai, Morìccica — fece il fratello ancor seduto sul davanzale, stendendo verso di lei la mano e toccandole la spalla. — Che strana impresa, e come profonda! Isa, tu l'avevi cara più d'ogni altra, tanto che alla Corte di Ferrara per le feste in onore di Lucrezia Borgia comparisti vestita di una camóra «recamata di quella invenzione di tempi e di pause».

      — M'è sempre cara — fece l'incantatrice. — È il valore di quel che non dissi non dico non dirò mai.

      Sorrideva col viso in profilo, metà nella luce e metà nell'ombra.

      — Riassumo da oggi l'impresa delle Pause — ella soggiunse. — Ora andiamo.

      Si volse per passare nel camerino attiguo.

      — Ma come non l'abbiamo veduta? — fece con un grido di meraviglia, e s'arrestò.

      Una piccola porta di marmo era dinanzi a lei, una porta gemmea, trattata anch'essa con ceselli da orafo come quella d'un ciborio, a cui i dischi di nero antico alternati coi tondi candidi in basso rilievo davan qualcosa di funebre quasi che s'aprisse sopra il sepolcro d'una delle «pute» mantovane, forse di Livia, forse di Delia, morta di baci. Un fregio di grifi sovrastava all'architrave; i fondi dei riquadri brillavano di pagliuzze d'oro come incrostati di venturina; e la figura avvolta d'un peplo piegoso, in atto di tenere il flauto di Pan, era la Musica ed era Isabella. Ma chi era, nel basso rilievo sottoposto, la donna ignuda avente sul capo i chiusi volumi, sotto il piede un teschio umano?

      — Ecco un'allegoria oscura come l'impresa delle Pause — disse Aldo inginocchiandosi per indagare l'imagine. — Tu stessa l'ispirasti a Tullo Lombardo?

      Ella si chinava con le due mani su le spalle di lui a guardare.

      — Ti somiglia — soggiunse sottovoce il fratello.

      — È vero — ella assentì sommessa.

      Ed entrambi rimanevano intenti, s'indugiavano. La sorda gelosia rimorse il cuore del taciturno.

      La figura scolpita a guisa di un cammeo aveva anch'essa le lunghe gambe lisce e l'un ginocchio molto proteso innanzi nell'atto d'incedere con quella maniera espedita che dava tanta pieghevolezza al passo della giovine signora e distendendo la stretta gonna palesava nel gioco alterno il disegno della coscia fino all'anca e l'inflessione del grembo sparente.

      — Aldo, Aldo, scacciala!

      Ella si raddrizzò, si schermì, sentendo il ronzìo dell'ape presso la sua gota. Con un balzo varcò la soglia; e i suoi piccoli gridi sonavano sotto il cielo d'oro, ché l'ape la perseguitava importuna; e le sue mani s'agitavano alla difesa puerile.

       — Ahi! M'ha punta!

      In uno di quei gesti scomposti la pecchia provocata l'aveva punta alla mano manca, nel polpaccio del pollice.

      — Mi fa male! Bisogna suggere forte, Aldo!

      Aldo non rideva più. Ella gli tendeva la mano supina, ed egli pose le labbra su la puntura per medicarla.

      — Sì, così.

      Egli suggeva più forte.

      — Basta!

      Ella rideva d'un riso che a Paolo sconvolto pareva l'eco attenuata di quello già udito lungo il canale delle ninfee dopo il passaggio del carro carico di tronchi.

      — Basta. Non mi duole quasi più. Mi brucia un poco soltanto.

      L'occhio di Vana era cattivo. La sorella empieva della sua ilarità tutta la stanza, trascorrendo intorno con una grazia di movimenti così forte ch'ella sembrava emanare da sé quella stellante ricchezza d'azzurro e d'oro come il pavone apre la sua rota sidèrea.

      — Riconosco, riconosco. Non avevo in questi armadii le mie più belle vesti? Non erano tappezzati di velluto crèmisi i miei stipi?

      Ella aveva scoperto in un angolo del nudo legno un frammento del prezioso drappo.

      —