Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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convulsa, un solo sguardo seguace: vide le ali dell'uomo oscillare, inchinarsi dall'una all'altra banda come in un rullìo folle; vide ai colpi del timone la lunga fusoliera impennarsi, beccheggiare, per alcuni attimi adeguare i piani nella librazione della discesa, dare in un baleno la speranza della salvezza, poi d'improvviso precipitare innanzi, senza più sostegno piombare con la velocità del peso morto, urtare la terra con uno schianto che nel silenzio cavo dell'anima parve un tuono.

      Grido non partì, gesto non si levò. Per alcuni attimi, tutto fu immoto, tutto somigliò a quel fascio di tele e di verghe, a quel mucchio biancastro, a quel gran lenzuolo funerario, che distava dieci passi dalla base della colonna romana. Non la luce del vespero ma la luce dell'evento rischiarava le genti e le cose. La pianura ebbe un aspetto oceanico, le nubi furono come un ciclo di mondi, il cielo fu come il diamante impenetrabile. Il dominio delle forze eterne fu restituito.

      Poi s'udì il galoppo dei cavalli accorrenti. Poi di sopra gli steccati la folla si rovesciò sul campo, avida di vedere il sangue, di guardare la carne lacera. Poi, su la folla che già ridivenuta selvaggia s'incalzava e si batteva per lo spettacolo atroce, stettero la colonna e la statua solitarie, due creature immortali dell'artefice efimero, che armavano di bellezza l'orgoglio invitto dell'uomo. Le ali di bronzo testimoniarono per le ali di lino.

      — È morto? Respira? È schiacciato? Ha il cranio aperto? stronche le gambe? rotta la schiena?

      Le domande lugubri comunicavano l'orrore agognato. Respinta dai cavalleggeri la folla ondeggiava, tumultuava. Le bestie crinite scalpitavano, sbuffavano, col sudore su i fianchi, con la schiuma nei freni. Per vedere, i più avidi si chinavano sotto le pance dei cavalli, s'insinuavano tra le groppe, restavano stretti fra sprone e sprone.

      Come i rottami furono rimossi, districate le sàrtie, sollevate le tele, apparve il corpo esanime dell'eroe. L'occipite aderiva alla massa del motore per modo che i sette cilindri irti d'alette gli facevano una sorta di raggiera spaventosa, lorda di terra e d'erba sanguigne. Gli occhi leonini erano aperti e fissi; la bocca era intatta e tranquilla, senza contrattura alcuna, senza traccia d'ambascia, coi suoi puri denti di giovine veltro nel fulvo della barba fine come lanugine. L'arteria della tempia, recisa da un filo d'acciaio con la nettezza d'un colpo di rasoio, versava un rivo purpureo che riempiva l'orecchio, il collo, la clavicola, le cellette sottostanti del radiatore contorto, un pugno semichiuso. Chinandosi un medico sul petto per ascoltare il cuore che non batteva più, sentì contro la guancia prona il fresco d'una foglia di rosa.

      — Tarsis! Tarsis!

      Un nuovo fremito corse allora la folla ebra e costernata quasi che la doglia del compagno superstite s'irradiasse in lei. S'udiva distinto, nell'alta quiete del vespero, approssimarsi il rombo del volatore infaticabile che girava la mèta.

      La sera su tutte le strade era come una sera di battaglia. L'apparizione del fuoco e del sangue nel giuoco eroico aveva esaltato anche le più umili vite. Indelebile rimaneva nella memoria l'imagine del cadavere avvolto nella fiamma rossa dei segnali e trasportato su la barella fra il popolo taciturno, per la triste landa, sotto l'albore crepuscolare inciso dal novilunio.

      Ora su tutte le strade era l'inferno del fuoco e del ferro. I veicoli fragorosi, furenti di rapidità contenuta, fatti d'ombra informe e di splendore accecante, s'incalzavano, s'accalcavano. Fra gli scoppii e gli sprazzi, gli squilli rauchi delle trombe e gli ululi lùgubri delle sirene si rispondevano come le voci del pericolo e dell'allarme. Il fumo e la polvere turbinavano in zone di luce violenta; un odore acre avvelenava l'afa; le figure umane apparivano e sparivano come larve, quasi perdute su i mostri ruinanti.

      — Ah, orribile, troppo orribile! — lamentò Isabella Inghirami, tutta chiusa nel mantello e nel velo, stringendosi addosso a Vana che batteva i denti come nel ribrezzo della febbre. — Non s'arriva mai. Aldo, passa innanzi, passa, passa!

      Un'impazienza irosa sibilava nelle sue parole. La sosta, nel fragore e nell'orrore, pareva senza termine.

      — C'è il fosso a destra.

      — Non importa!

      — Ecco, si va.

      La macchina avanzava per breve tratto, coi fanali contro il serbatoio di quella precedente; poi s'arrestava, pulsando, sussultando. Le sirene ulularono. Un cane latrò sul ciglio del fosso: colpiti dai raggi, gli occhi gli sfavillarono d'un bagliore demoniaco, più verdi degli smeraldi contro il sole.

      — Vana, batti i denti?

      — Ho freddo.

      — Tanto freddo?

      — Sì.

      — Hai forse un poco di febbre?

       — Non so.

      Entrambe erano velate, e neppure intravedevano i loro volti. La sera di giugno era umida ed elettrica. Lampeggiava, laggiù, verso il Garda. Vana teneva su le ginocchia le rose della sua cintura, per preservarle. Tutto era oltranza audacia e constrizione, dentro di lei.

      — Ti senti ancóra svenire?

      — No.

      — Farò sapere a Giacinta Cesi che non andremo a pranzo.

      — Sì. Ma tu puoi andare, forse.

      Vana aveva già il suo proposito occulto.

      — Credi?

      Entrambe, oscure l'una per l'altra, sentivano soffrire le loro voci come si sente soffrire una mano bruciata, una caviglia distorta. Chiuse nella dissimulazione, caute, si palpavano con le loro voci come con qualcosa di dolente a cui ogni più lieve tocco sia un urto che l'offenda e strazii. Dall'ora di Mantova, separate all'improvviso per uno di quei piccoli fatti che sono come un colpo di cesoie in un filo teso, si spiavano, si esploravano. Sotto le apparenze della loro vita comune covavano i loro istinti di dolore, di menzogna e di lotta, l'una facendosi forte della pazienza terribile ch'era in fondo alla sua furia vitale, l'altra consumandosi negli eccessi nelle contraddizioni nei languori della sua verginità sospesa fra tanta inconsapevolezza e tanto conoscimento. Talvolta una bontà subitanea le ammolliva; e le assaliva un bisogno quasi carnale di stringersi l'una contro l'altra, di schiacciare fra l'uno e l'altro petto la pena inconfessata. Strette, mute, rievocavano intorno alle loro anime il torpore delle loro culle, il calore della protezione materna, lungamente immobili come il malato che teme di risvegliare lo spasimo assopito; ma sentivano a poco a poco nel silenzio riformarsi, con la materia stessa delle vene delle ossa dei polmoni del cuore fusa in una massa cieca, riformarsi e dilatarsi quel che le faceva soffrire e nascondere.

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