Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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suo compagno? che gli era accaduto? quale cagione l'aveva costretto a discendere? — Percepì una pausa in un cilindro, un'altra pausa in un altro, poi più pause intermesse; e il cuore gli si serrò, e gli parve di farsi esangue come se le sue arterie si vuotassero nei tubi metallici. — La sorte lo tradiva d'improvviso? — Orzò di punta, contro un rìfolo; manovrò di gran forza, radendo contro strettamente quanto più poteva; girò la mèta penultima virando a pochi pollici dal pennone; di tutta la sua volontà fece un dardo inflessibile, fece uno di quei dardi che i feditori chiamavano soliferro, tutto ferro asta punta e cocca; tracciò con l'animo sino al traguardo una linea più diritta di quella che le maestranze segnano col filo della sinopia. Quando l'animo che aveva trapassato i sensi rientrò nel cuore, egli potè udire con l'orecchio pacato il lavoro dei cilindri ridivenuto unisono, il palpito energico ed esatto. Per istinto, come se il suo compagno fosse là, modulò la voce gutturale ch'era il segno del contento nel loro gergo bizzarro di tenda e di ventura appreso dalle bestie domesticate e dai linguaggi barbarici. Rise in sé solo, pensando come in quel punto dovesse agitarsi l'enorme pomo d'Adamo su e giù nella gola secca di John Howland. Gli tornò nella memoria lo strano riso dell'ornitologo amico degli avvoltoi, simile a quel rumore di tabella che fanno col becco le cicogne: «Alis non tarsis». Vagò per pensieri involontarii e informi, come se d'un tratto la sua attenzione si fosse dispersa, come se l'evento avesse perduto ogni valore. Poi ebbe il petto traversato dall'imagine d'Isabella: rivide il viso di fàscino e di periglio sotto la larga falda ornata dell'airone bianco a lunghe piume tremule, rivide il gioco dei ginocchi nella gonna cinerina che con l'arte di due pieghe inesplicabili imitava due ali chiuse. Fu pieno d'ebrezza e di vendetta. Ancóra un giorno d'attesa!

      Subitamente l'intervallo si chiuse; il nucleo della forza si ricompose. Di nuovo egli sentì che le sue vertebre armavano tutto il congegno e che l'ossatura delle ali simile all'omero tubulare dell'uccello era penetrata dall'aria stessa dei suoi polmoni. Di nuovo gli si creò nei sensi l'illusione di essere non un uomo in una macchina ma un sol corpo e un solo equilibrio. Una novità incredibile accompagnò tutti i suoi moti. Egli volò su la sua gioia. Una intera stirpe fu nuova e gioiosa in lui.

      — Àrdea! Tarsis!

      Scorse issato su l'albero dei segnali il disco che segnava la sua vittoria. Udì salire il fiotto marino. Guardò: intravide la massa grigia della folla, pallida di facce, irta di mani. Se bene volasse a calata per girare la mèta, gli parve di alzarsi vertiginosamente per superare un culmine immobile. S'inchinò, virò, passò, in un tuono di trionfo, in uno sprazzo di fulgori, bianco e lieve, sfavillante di rame e d'acciaio, sonante di fremito, messaggero della più vasta vita.

      Allora, mentre il vittorioso proseguiva la sua rotta per superare la sua vittoria così che ogni speranza di rivincita nel vinto fosse vana, su l'albero dei segnali apparvero i due triangoli neri che nominavano Giulio Cambiaso, e il quadro bipartito bianco e rosso che indicava la gara del più alto volo.

      Durava tuttavia nella moltitudine la violenta fluttuazione che succede alla tempesta. Nell'anima immensa ferveva e luceva il solco eroico lasciato da colui ch'era scomparso anche una volta tra ombra e luce per cercar di porre ancor più lontano la sua erma nell'intentato. L'ansia era ancóra aspettante. L'annunzio della nuova prova era una promessa magnifica e tremenda sospesa nel vespero. Quando il compagno di Paolo Tarsis montò su l'Àrdea per partire, ogni tumulto cadde. L'elica rombò nel silenzio.

       «La rosa di Madura, la rosa ritrovata! È la prima volta che porto un fiore nel cielo. Dove sarà la piccola Indiana olivigna? Forse mi guarda, forse ha paura, forse la sua dolce anima trema nella sua cintola azzurra, sotto il cappello inghirlandato. Che strana visita! La rivedrò quando sarò disceso? la incontrerò più tardi? Paolo troverà ancóra un pretesto per tenermi lontano.... La rosa gialla di Madura! La porterò in alto, in alto».

      Il polo del cielo era sgombro, in forma di orbe, come veduto dall'arena di un anfiteatro, cupola incurvata su l'ordine dei pilastri e degli archi. I portici colossali delle nubi lo sostenevano, domato l'incendio. Uno spirito misterioso inspirava le figure informi che su i fastigi s'allungavano s'inchinavano si rovesciavano come la Notte e l'Aurora su i sepolcri medicei, come nel volume della Sistina i Profeti e le Sibille. Sparivano la città di legno e le sue piccole cose, ma le grandi s'ingrandivano con l'ombra e con l'ansia. Ora la Nike su la colonna romana era grandissima.

      «La porterò a un'altezza non raggiunta mai da me né da altri, sopra le nubi». E l'Àrdea girò con largo giro intorno al bronzo verde. L'ala rettilinea fu bella come l'ala solare consacrata dal culto egizio. Il popolo, che aveva tratto la dea sul carro e ridato al vento il peplo dorico, sentì la duplice bellezza e gridò la prima sillaba dell'inno senza lira. Incominciava per lui un'atroce gioia.

      A onde, a cerchi l'Àrdea saliva. D'onda in onda, di cerchio in cerchio il rombo si faceva più fievole; d'attimo in attimo perdeva ogni violenza: fu come il battito della maciulla su l'aia, fu come il ronzio d'uno sciame nell'arnie, fu come i rumori agresti che cullano i sogni, fu come i canti che lontanano, come i canti che lontanando aprono l'infinito della tristezza e del desiderio; parve inazzurrarsi come la macchina, come l'uomo; s'ammutolì, non fu più nulla; non poté più essere udito se non da quel solo.

      La folla era protesa in ascolto, con l'anima nelle pupille, trattenendo il respiro. E la diminuzione graduale del suono creava in lei un sentimento della lontananza così profondo che la sua vista n'era illusa. L'uomo sembrava già assunto in un'altezza incalcolabile, interamente disgiunto dalla sua specie, solo come nessuno mai fu solo, fragile come nessuno mai fu fragile, di là dalla vita come il trapassato. Lo spavento dell'ignoto incavò tutti i petti.

      «Non più! Non più!» diceva lo spavento. «Ancóra! Ancóra!» diceva lo spasimo avido d'un altro spasimo.

      «Non più! Sei già troppo alto. Dài la vertigine».

       «Ancóra! Sali! Tocca almeno l'orlo di quella nube».

      «Non più! Un soffio può ucciderti, un nulla: un filo che si spezza, una scintilla che s'interrompe».

      «Ancóra! Non cedere! Dove tu sei, fu già un altro uomo. Bisogna che tu superi il punto, che tu conquisti un cielo nuovo».

      «Non più! Ecco, precipiti».

      «Ancóra! La morte ti ammira».

      E un urlo di tutti i petti ventò verso l'intrepido; ché su l'albero attrezzato biancheggiava il segno di gloria. L'Àrdea fendeva un cielo nuovo.

      «Non più! Hai vinto».

      «Ancóra! Stravinci».

      Lo spasimo della folla era come la pulsazione incessante d'una febbre unanime, che si comunicasse all'aria insensibile e giungesse fino a quell'ali d'uomo. L'unanimità sublime e selvaggia era come un elemento che si mescesse all'elemento e ne alterasse la natura e ne facesse come un modo di vita inopinato. Il cielo fu come un destino imminente.

      «Ancóra! Ancóra!»

      Pareva che la legge delusa non potesse più esser vendicata, che di là dal limite il pericolo fosse scomparso, che per eccesso d'ardire l'uomo divenisse immune e impune. Omai l'ordegno non era se non una freccia sospesa per incanto nel cielo impallidito. L'attimo era eterno. Nessuna parola poteva esser detta. La moltitudine respirava nella favola come se là, dove s'affisavano le miriadi delle sue pupille, fosse per risplendere una nuova costellazione.

      — Discende! Discende!

      Il fascino fu rotto. Fu detta quella parola, prima a bassa voce poi con clamore ineguale.

      — Discende!

      Si vedeva la freccia ingrandirsi, rapidamente ridivenire congegno alato. Qualcosa di lucido e d'opaco, a volta a volta luccichìo lieve ed ombra indistinta, solcava l'aria sott'essa. Forse tal fu la prima penna caduta dall'òmero d'Icaro sul mare.

      Una voce di terrore gridò:

      — L'elica! Una pala dell'elica!

      E il terrore si propagò per tutta la folla, non da voce a voce ma da carne a carne. Come si scolorava la nube, la folla si scolorò, irriconoscibile: un solo pallore occhiuto, col bianco d'innumerevoli occhi nelle orbite sbarrate, fiso alla sorte dell'uomo.

      —