Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no


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Ah, siete qui? Vi troviamo finalmente! Avreste ben potuto aspettarci, o almeno degnarvi di lasciar detto qualcosa per noi alla Porta Pusterla.

      — Credevamo che tu fossi lì lì per raggiungerci — rispose Isabella, domato il turbamento. — C'era parso di udire la tua cornetta, Aldo. E abbiamo pur lasciato il custode giù.

      — Sorte, che Vana è indovina! Per tutta la strada non abbiamo fatto che mangiar polvere.

      — Al momento di partire, non t'ho io proposto d'andare avanti? — disse Paolo Tarsis.

       — Ma tu hai una torpedine da corsa e io ho una testuggine di palude.

      — Ottima per questo paese, dunque.

      Paolo desiderò di scomparire, di ritrovarsi in qualsiasi parte ma lontano. In quella falsa gaiezza si risolveva la sua gioia di porpora!

      — Piccolo, via, non mi tener broncio. Sei sempre scontento — disse Isabella, morbida, lisciando con l'anulare i fini sopraccigli del fratello velati come di cipria.

      — Isa, promettimi che vieni con me pel resto della strada e mandi Morìccica con Paolo.

      — Sì, se vuoi.

      — Voglio, voglio.

      — Ah, come ti vizio!

      — Che hai nei denti?

      — Che ho?

      Ella serrò la bocca e di sotto fece scorrere su i denti rapida la lingua.

      — Anche nel labbro.

      — Che ho?

      — Un po' di sangue.

      — Sangue?

      Ella cercava il fazzoletto; e si traeva indietro con moti quasi coperti, chinando sotto le ali ferrugigne il viso ch'ella credeva di fiamma. Con una tenerezza accigliata ch'era una crudeltà inconsapevole, il fratello insisteva da presso; stendeva la mano verso di lei; le prendeva tra il pollice e l'indice il labbro inferiore; diceva:

      — Hai un piccolo taglio.

      Involontariamente Paolo si volse dall'altra parte, con l'atto di guardare sul camino di marmo rosso lo specchio barocco in una ghirlanda di Amorini alati, stretto dall'ansia, temendo che su lui apparisse la medesima traccia. Scorse il capo di Vana alzato verso il labirinto del soffitto e percosso da un fascio di luce sinistra. Con un colpo sordo nel cuore, udì l'accento della voce ammirabile nella menzogna. Conobbe la nuova qualità di quella voce, che diceva:

      — Ah sì, forse, quando son caduta, dianzi laggiù, mettendo il piede in una buca dell'ammattonato....

      Ed ella cercava il fazzoletto per coprirsi la bocca come se le fosse tutta una ferita cocente.

      — Tieni — disse Vana porgendole il suo.

      Era rimasta col capo levato verso il soffitto, come assorta, come attenta a udire il custode narrarle l'avventura di Vincenzo Gonzaga, che illustrava l'emblema parlante; ma non aveva mai distolto dalla sorella lo sguardo obliquo, quell'iride chiara sì duramente torta nell'angolo delle pàlpebre. E Paolo vide nel fascio di luce il risalto del bianco, intenso come smalto, su la stretta faccia olivastra; vide quella mano tesa. E nella faccia e nella mano era tanta forza d'espressione e d'illuminazione ch'elle parevano sorpassare la realtà e intagliarsi nel cielo stesso del fato, come quando il crinale delle Dolomiti solo arde nei crepuscoli inciso contro tutta l'ombra, e ciascuno dei suoi rilievi s'addentra nell'anima di chi mira, e vi s'eterna.

      — Forse che sì forse che no — disse l'adolescente con una voce ch'era già velata dalla malinconia, leggendo il motto inscritto negli intervalli dello scolpito errore. — Perché, Isa, tra l'uno e l'altro Forse c'è un ramoscello e non un'ala, non la tua ala, Tarsis? L'ala di Dedalo o il filo di Arianna. Perché dunque un ramoscello?

      — Non so — rispose la bocca baciata.

      — Non so — rispose il costruttore d'ali incatenato alla terra.

      — Perché, Morìccica?

      — Non so — rispose la vergine oscura che aveva voluto esser macchiata dalla goccia del sangue voluttuoso.

      — Non so — rispose a sé medesimo l'adolescente oppresso dei suoi anni così pochi e così carichi d'ignota pena.

      E non sapevano; e in ciascuno era una strana esitanza a uscire da quel luogo, a volgersi altrove, ad andare avanti o a tornare indietro, come se dall'alto le liste d'oro si prolungassero in una zona pieghevole che invisibilmente li circuisse e li annodasse di continuo.

       — Andiamo — disse Aldo ponendo il braccio sotto quello d'Isabella. — Io voglio vedere il Paradiso, e nulla più.

      Quando per la scaletta di tredici gradini il custode li condusse agli scrigni della principessa estense, quando riudirono la rondine stridere nella perla sospesa del giorno, la potenza chimerica della vita li percosse tutti nel mezzo del cuore, quivi fece più crudamente dolere i mali e i sogni inconfessabili. E l'uomo nel rigoglio della virilità esperto d'ogni rischio e d'ogni mèta, immune da ogni paura e da ogni abitudine, armato di diffidenza e di dispregio, che aveva conosciuto giorni innumerevoli in cui la disciplina della sua virtù piantata su le due calcagna gli bastava a vivere, guardò il meraviglioso ingombro del corpo omai promesso e oppose al presentimento della sciagura l'imagine dell'orgia liberatrice, memore del marinaio disceso nel porto per ripartir più leggero domani verso l'Oceano; e gli gonfiò le vene l'impazienza di saziarsi. Non ignara del piacere e bisognosa di gioire soffrendo, smaniosa di sporgersi all'orlo delle tentazioni più terribili, con un cuore timido e temerario, soave e spietato, la donna aspirava intorno a sé l'ardore delle anime simile all'odore sulfureo dell'uragano; e non formava alcun disegno, non si preparava contro l'impreveduto; pesava sul ritmo de' suoi ginocchi la divina bestialità del suo corpo, covava la sua astuzia e la sua lussuria nel suo calore più profondo. Ma la vergine e l'adolescente non avevano difesa contro lo strazio, non contro il profumo della magnolia, non contro la pallidezza della palude, né contro l'estasi dell'aria, pieni entrambi di forze discordi che facevano un cupo tumulto disperdendosi e risollevandosi a ogni soffio intorno un'ombra che forse aveva una sembianza da non poter essere guardata fisamente senza terrore.

      — Ecco il mio giardino — disse Isabella piegandosi sul davanzale, con l'accento medesimo ond'ella avrebbe detto all'inizio d'una confessione impetuosa: «Ecco la mia colpa, ecco la mia gloria».

      Un'ebrezza perversa si partiva da lei, mista di spontaneità e d'artifizio, espressa ora col viso nudo ora con la maschera, ora con l'affettazione dell'attrice sapiente ora con la più ignara grazia animale.

      — Te l'imaginavi così, Aldo?

      Al fianco di lei si piegava il fratello, cingendole col braccio la cintura, su la pietra calda.

      — Guarda, Morìccica. Guardate, Tarsis.

      Vana e Paolo s'appressarono; ed ella si scansò perché giungessero a scoprire i rosai. Attirò Vana contro sé per sentirla fremere; e sul capo chino di lei fece passare il suo sguardo verso l'amante, uno sguardo che non era un baleno ma qualcosa che pesava, che colava come una materia fusa. E stavano là tutt'e quattro in un gruppo, nel calore, nell'odore, invasi da un intorpidimento leggero che somigliava il principio di un incantesimo.

      Anche il giardino era intorpidito, quasi imbiutato d'un silenzio pingue come il miele come la cera come la gomma. Era un abbandono e una tristezza che si consumavano in profumo tardo. Gli spiriti dell'olio si sprigionavano dal cociore dello spigo e del rosmarino; le albicocche pendevano mézze nella fronda floscia, qualcuna sfatta, aperta sul nòcciolo, stillante; i rosai non potati avevano sprocchi tanto lunghi e teneri che s'incurvavano sotto una rosa scempia; e la pallida palude vergiliana appariva di là dagli alti gigli tanto ricchi di pòlline che n'eran lordi.

      — Quando io vivevo — disse piano l'incantatrice, col volto quasi vaporato dalla squisitezza del sorriso — il mio giardino era pieno di pecchie e di camaleonti.

      Un'ape entrò, sonora. Gli occhi dell'adolescente la seguirono con una meraviglia che rese straordinario il volo. Tutt'e quattro, raccolti nello