Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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dal tranvai all’angolo di via Cosimo del Fante e trovò subito la casa, che era la terza verso corso Italia.

      Una di quelle case costruite al principiar del novecento, quando, col secolo nuovo, imperò — per brevi anni, fortunatamente — l’atroce stile liberty, tutto curve e svolazzi mostruosi. Aveva l’apparenza pretenziosa an cora, ma era precocemente vecchia e scrostata. Dentro, nell’andito troppo stretto, l’uscio a vetri della portinaia si apriva sui primi gradini della scala.

      «Le signore Sorbelli?».

      Un rumore di tegami, un ciabattare e poi la donna comparve. Come la casa, appariva vecchia, unta e trasudante, per quanto non dovesse aver neppure quaranta anni.

      «Terzo piano, prima porta… Vuole la signorina?».

      «Tutte e due…».

      «C’è la madre sola. La figlia è a scuola fino alla mezza. Lei è mandato dal Municipio?».

      De Vincenzi chiuse la porta e si avviò per le scale. Ma la portinaia gli corse dietro.

      «Dica!… Se va su per un consulto… è meglio che torni dopo pranzo… C’è gente adesso ed è già tardi…».

      Il commissario si voltò e ridiscese i pochi gradini, che aveva fatti.

      «Che consulto?».

      La donna apparve imbarazzata.

      «Non so… Credevo… Ma, infine, chi è lei?».

      «Non importa che sappiate chi sono… Spiegatemi questa storia del consulto».

      «Perché? Lo domandi alla signora Sorbelli, se va da lei!».

      E scomparve di nuovo dietro la porta, che richiuse. De Vincenzi ebbe l’impulso di seguirla. Ma si trattenne. Dopo tutto era meglio non metterla in sospetto, con domande precise. A lui era facile immaginare di che cosa si trattasse. La medium, con quella sua aria distinta, da nobile decaduta, faceva forse la chiromante o qualcosa di simile. Era lieto della scoperta, se le cose stavano così. Quel che andava a proporle diventava più facile.

      Sulle scale s’incontrò con due signore eleganti che scendevano e dovette farsi contro il muro, per lasciarle passare. Quelle lo squadrarono. Un’ondata di profumo lo ravvolse. Era il profumo di gente, che va anche a farsi leggere la sorte con le carte o nei fondi del caffè. Quando ebbero raggiunto il pianerottolo inferiore e furono scomparse al suo sguardo, le sentì ridere. Al terzo piano, vide subito la targa d’ottone, col nome e cognome scritti in corsivo, a lettere nere, senza maiuscole: «wanda sorbelli». Una trovata anche quella!

      E non ebbe bisogno di premere il campanello, che la porta si aprì.

      «È troppo tardi!» cominciava a dire la signora Sorbelli, ma lo riconobbe e gli sorrise, affettando allegria. «Oh! Il signor commissario!… Favorisca nella nostra umile dimora…».

      Il tono s’era subito fatto ricercato, prezioso, ma lei aveva impallidito e ansava leggermente. Si trasse da parte, per farlo entrare.

      La stanza d’ingresso era quella di una qualunque casa borghese.

      «Per di qua, signore».

      Aveva ritrovato la sua distinzione e quell’aria da gran dama, che avevano reso perplesso De Vincenzi la prima volta.

      C’erano tre porte. Aprì quella di fronte. Una stanza da pranzo coi mobili chiari, di legno biondo, carichi di intarsi. In mezzo alla tavola un vaso di cristallo con qualche garofano appassito.

      Il commissario si guardò attorno rapidamente. Sulla credenza c’era un piatto di carne del giorno prima e il pane ancora incartato dal fornaio. Certamente non era quella la stanza dei consulti e la donna aveva preferito fargli vedere il bollito, più tosto che le carte o i fondi di caffè.

      «S’accomodi…».

      Prese il piatto della carne e lo fece sparire dentro la credenza. Cacciò il pane in un cassetto.

      Poi andò a sedersi all’altro angolo della tavola, al suo fianco, e volse la seggiola di tre quarti, per poterlo guardare in faccia.

      «Mi dica in che cosa posso esserle utile… Mi duole che mia figlia sia fuori di casa. Ma se lei si trattiene, la vede tornare. Alla mezza, termina la scuola e ha poca strada da fare…».

      De Vincenzi taceva. Era imbarazzato. Avrebbe preferito adesso che la portinaia non gli avesse parlato di consulti. Per la strada, in tranvai, s’era fatto un piano.

      Sapeva di dove cominciare. Ora, non più. Quella donna a due facce lo sconvolgeva. Come poteva far le carte, con la sua voce musicale e vibrante e il suo contegno da marchesa?

      La signora Sorbelli, davanti al suo silenzio, cominciò a guardarlo meravigliata. Improvvisamente le passò sul volto un’ombra di spavento.

      «C’è qualcosa di nuovo? Mi dica!… Ho letto nei giornali che hanno ucciso anche la cameriera…». Mandò quasi un grido. «Ah! Lei è qui per questo!». «Per questo, che cosa?» chiese De Vincenzi.

      «Perché crede che io sappia più di quanto le dissi; nel suo ufficio…».

      «Sa realmente di più lei?».

      «Ma no! Come potrei? Quando l’ho veduto sulla soglia della porta, non ho pensato neppure che lei era un commissario di polizia… Mi spiego… L’ho chiamata commissario, ma non mi sono resa conto che potesse venire da me a causa delle sue funzioni… per interrogarmi… E strano! Mi è apparso come un visitatore qualsiasi… un buon amico…».

      «Un cliente» insinuò De Vincenzi con voce soave. Cominciava a ritrovare la sua freddezza.

      L’altra tacque, colpita. Sembrò facesse uno sforzo, per capire.

      «Un cliente?» chiese poi, irrigidendosi.

      «Dicevo per dire…».

      «Non credo! Lei ha un’idea precisa. Si riferisce a qualcosa di concreto. Perché vuol giocare con me come con un topo? Anche il suo lungo silenzio di quando è entrato… Crede che io abbia un mistero da nascondere?».

      «Non proprio un mistero, forse…».

      «Ma un?… Suvvia! Dica che cosa…».

      «Un piccolo, piccolissimo segreto…».

      «Ah!».

      Si osservarono. Nessuno dei due voleva parlare per il primo, lei perché temeva di dir troppo, il commissario perché sperava che la donna si tradisse. In fondo, lui brancolava nel buio, guidato soltanto dalla propria intuizione.

      «Mi vuol dire perché mi ha onorata di una sua visita?».

      La voce d’oro s’era fatta fredda, quasi imperiosa.

      De Vincenzi tese la mano sul tavolo con la palma rivolta in alto, verso di lei.

      «Vuol leggermi la vita?».

      Fu istantaneo. Il volto già flaccido e bianco le si decompose. Gli occhi le divennero supplici. Due lacrime le rigarono le gote.

      «Lo sa?!» mormorò. «E per questo che è venuto! La supplico, non mi faccia del male. Oppure, faccia quel che deve, ma eviti che lo sappia mia figlia!… Se non ho preso la licenza, se non ho fatto la dichiarazione alla Questura, non è stato per nascondermi. In fondo, io credo sinceramente nella chiromanzia, come in tutte le arti magiche. Quel che dico e faccio lo compio inconsciamente, mossa da una forza superiore. Glielo giuro! Ma non volevo che lo sapesse la mia Tina! Lei stesso ha sentito come mi ha rimproverata, perché avevo partecipato alle sedute spiritiche! No! Non glielo dica! Ne morrei creda: ne morrei di vergogna!».

      Singhiozzava. Era livida. Doveva soffrire di cuore, per di più! De Vincenzi si spaventò.

      «No! Non glielo dirò! Non ha importanza. Si calmi!…».

      Si guardava attorno.

      La donna sembrava mancare.