Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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vuotando.

      De Vincenzi voltò sotto il passaggio del Manzoni. Il dottore gli camminava a fianco.

      «Crede che sia tutto finito?».

      «Finito?».

      «Voglio dire che abbiate preso l’assassino…».

      «Già… Ha confessato?».

      «Non parla, neppure per negare».

      «Ma sarà un mandatario!».

      «Naturalmente».

      «E il mandante?».

      De Vincenzi si fermò in mezzo alla piazza, davanti al monumento.

      «Quale ipotesi farebbe lei, dottore, ch’era un amico del morto?».

      «Gliel’ho già detto che non saprei pensare chi possa essergli stato nemico al punto da volerne la morte… Gelosia? Invidia? Non bastano per pagare un sicario!».

      «È vero. Agiscono da sole. D’impeto. Allora?».

      «Non so. Mi ci perdo… Ipotesi? Oh! Se ne possono fare. Una donna, che abbia voluto vendicarsi…».

      «Anche qui siamo nel campo passionale…».

      «Ha ragione!».

      Trasalì, fissò De Vincenzi.

      «E se fosse stato quel fratello della cameriera? I giornali hanno detto che era un pregiudicato. Fra gente di quella risma si può stringere un patto».

      «E avrebbe fatto uccidere anche la sorella, dopo averla vendicata?».

      «La ragazza poteva aver scoperto qualcosa e aver minacciato di parlare… Una donna che ama è sempre pericolosa».

      «L’ipotesi è sottile» fece De Vincenzi con gravità. «Ci penserò. Vede che lei era in grado di darmi aiuto! Ed è scomparso per tanti giorni…».

      «Ah!» fece il dottore, allargando le braccia. «Se sapesse che non ho un minuto di pace».

      «Ma le sue passeggiate notturne, quelle le farà ancora, no?».

      «Lei di notte rimane chiuso a San Fedele! Lavora… Non ho osato venirla a disturbare».

      «Venga, quando vuole. Mi farà sempre piacere… E poi non ho deposto l’idea della seduta spiritica… Lo sa che mi vado sempre più convertendo alla sua credenza?… Un mondo ci circonda, che ignoriamo!».

      «Oh!» esclamò il dottore. «Coloro che si contentano di quel che esiste, si contentano di poco!».

      «Ebbene, perché non aiuta anche me a non contentarmene?».

      Marini rimase qualche minuto in silenzio. Aveva lo sguardo fisso.

      Il volto di solito roseo gli si era sbiancato. Le labbra tumide gli tremavano leggermente.

      De Vincenzi attese.

      Finalmente, l’altro parlò. La voce era dura, metallica, quantunque contenuta e quasi soffocata. Si sarebbe detto che parlasse a se stesso.

      «E stato dieci anni or sono che io mi sono dato alle pratiche spiritiche, profondamente convinto ch’esista un altro mondo invisibile e che sia possibile agli uomini di comunicare con esso. Credere allo spiritismo, vuol dire credere alla sopravvivenza dell’anima sul corpo, alla sua individualità dopo la morte e quindi alla sua immortalità. Coloro che ci lasciano possono tornare… Da allora, non ho fatto che un solo proselite alla mia fede… E fu Magni… Oggi, Ugo è morto… Morto nel modo che sappiamo… Non ricomincerò l’esperienza con un altro!…».

      De Vincenzi rise.

      «Non crederà che il senatore sia morto, perché si era dato allo spiritismo!».

      «Oh! No… Ma io sono superstizioso. Tante cose che agli altri appaiono assurde o comiche o grottesche, per me hanno un valore diverso. Non mi badi».

      Tese la mano al commissario.

      «E adesso vado dai miei ammalati, i quali non hanno alcun desiderio di conoscere l’aldilà e si affidano a me, per non conoscerlo…».

      Era tornato gioviale.

      «A rivederla. Verrò certamente una di queste notti. Ma non discorreremo di spiritismo. Non bisogna parlarne a cuor leggero… e, per farlo seriamente, occorre trovarsi nello stato di grazia. Creda a me!».

      Si allontanò in fretta e scomparve per via Agnello.

      De Vincenzi entrò in San Fedele, ripetendo involontariamente a se stesso le parole, che il dottore aveva pronunziate in un momento di meditazione quasi allucinata: «Coloro che ci lasciano possono tornare…».

      Sani gli si fece incontro, per dirgli: «Di là, con Cruni c’è quel Pietro Santini… E venuto da sé… Ti vuol parlare…».

      «Fallo venire» disse il commissario, entrando nella sua camera e andando all’attaccapanni, per appendervi il soprabito e il cappello.

      R

      Il «parco dei cervi»

      Mentre aspettava che il fratello di Norina comparisse, De Vincenzi diede un’occhiata all’armadio in cui stavano rinchiusi i quattro ferri chirurgici e il camice bianco, che era di cotone troppo comune per avere appartenuto al professore Magni. «I camici del Professore sono di puro lino… Era una sua civetteria aver ferri di molto valore…».

      Quello rimaneva un mistero. «Prego consegnare alla Questura».

      Chi era stato il padrone di quei ferri e di quel camice? E perché glieli avevano mandati?

      «Venite avanti».

      Il giovanotto avanzò con quel suo passo caratteristico, dimenando i fianchi e gettando avanti una spalla dopo l’altra. Non era più lo scamiciato di quella notte, in cui lo avevano portato lì dentro legato con le cinghie. Indossava l’abito del suo tristo mestiere: i pantaloni troppo larghi con le cuciture ribattute alla costura, la giacca attillata alla vita, le maniche a imbuto, la camicia di seta grigia con la cravatta a strisce larghe, rosa e bianco.

      Lo sguardo sfuggente s’incontrò per un istante con quello di De Vincenzi, che lo fissava.

      «Hai voluto parlarmi?».

      «Sì… Si tratta di lei… Siedi».

      Lui sedette, tirandosi i calzoni sulle ginocchia.

      «Che c’è? Hai scoperto qualcosa?».

      «Non so… M’hanno detto che avete arrestato un vecchio… Che lo hanno trovato col cappello di lui e col mantello di Norina…».

      «Ebbene?».

      «Il cappello, non so… forse non è vero che l’aveva… Ma il mantello al bigatt gliel’ho dato io… perché lo vendesse…».

      Parlava a voce bassa, roca, con la cantilena propria dell’ambiente al quale apparteneva, resa più marcata dall’accento livornese e da un certo turbamento da cui era invaso.

      «Spiegati».

      «Norina venne a cercarmi a casa mia nel pomeriggio di martedì, verso le sei… Lo dissi anche a lei, quando mi interrogò quella notte… Deve ricordarselo!…».

      «Va’ avanti…».

      «Io non c’ero… Stavo nel negozio del “commendatore”… Lei avrà verificato l’alibi, se non mi ha più mandato a prendere… Allora, Norina parlò con la portinaia… L’avvertì che sarebbe tornata più tardi… a sera fatta… prima che chiudesse il portone e le lasciò il mantello da tenere, perché aveva caldo, disse, e doveva fare ancora parecchie corse per la città…».

      «E tu?».

      «Sono