nel cortile, al di là dell’inferriata polverosa. La campagna! Tanta purità! Che strano impasto di sentimenti discordanti, opposti, era in lui! Aveva voluto tuffarsi, per bisogno dello spirito, in quella vita e anelava senza posa a uscirne, come il carcerato anela alla libertà. Nessuno che lo avesse veduto agire e parlare, con quella sua precisione netta e algebrica, con quella logica tagliente e implacabile, avrebbe ammesso che la sua anima era ancora quella del bimbo, che ha bisogno delle carezze materne.
Un rumore nella stanza accanto lo fece sussultare, come colto in fallo.
S’affrettò a uscire.
«Tornerò fra un’ora. Forse, prima».
«Se viene il dottor Verga?» gli gridò Sani.
«Trattienilo».
Sulla piazza, nel sole di primavera, i colombi avevano coperto il monumento a Manzoni.
De Vincenzi salì in un tassi e diede l’indirizzo di via Abbondio San Giorgio, 18. Inconsapevolmente, aveva abbassato la voce, per parlare all’autista. Gli sembrava che tutti avrebbero subito compreso che cosa andasse a fare laggiù. Per lui era come se stesse per tradire un segreto d’anima, più che un segreto d’ufficio.
Se realmente «coloro che ci lasciano ritornano», pensò, io dovrei trovare lo spirito di lui a interdirmi di penetrare in quell’appartamento!
Perché si vide dinanzi le labbra troppo rosse e il volto cereo della vedova, in gramaglie, col petto leggermente ansante sotto il vestito di crespo?
E perché sentì all’orecchio la voce di Chirico, il padrone della libreria insanguinata, proferir con vibrazioni nuove e profonde quella frase troppo grande in bocca di lui, ometto risecchito e bilioso: «Tutto un mondo che non conosciamo vive attorno a noi».
Poi fu il corpo turbevole e tanto stranamente voluttuoso di Patt ad apparirgli, così come l’aveva veduta appoggiata al tavolo di marmo dell’ambulatorio, col capo un poco rovesciato all’indietro e un sorriso ambiguo sulle labbra carnose, che scoprivano i denti perlacei, saldamente piantati nelle gengive.
E quell’altro corpo di donna nudo, palpitante ancora, per quanto inanimato, con la gola segnata dalla stretta demente dell’assassino…
Una teoria di fantasmi.
Fioretta Vaghi, che veniva a dargli, piangendo d’amore desolato, la prima lettera dell’enigma. La medium, che faceva la chiromante per pagare i debiti del marito giuocatore. La maestrina, che aveva una volontà autoritaria, sotto l’apparenza della rassegnazione. Il dottor Marini, che credeva nell’aldilà, fino a confessarsi sicuro che i morti tornano.
Ombre o creature umane?
Personaggi di fantasia o persone vive?
Tutti fuori fuoco in quel quadro di un delitto commesso con la più sottile arte e con la più selvaggia immaginativa.
Il tassì s’era fermato davanti a un atrio di marmo nero, in una strada, che aveva da un lato la fila delle case alte, bianche, nuove, e dall’altro una scarpata verde e un prato, con la staccionata di legno giallastro.
Il sole batteva, non caldo ancora, ma acuto, come il raggio di un radiografo.
De Vincenzi si scosse; gli ci volle qualche istante prima di ricordare perché si trovasse in quel luogo. Pagò l’autista, che lo guardava con malizia quasi sapesse di averlo accompagnato a un buen retiro. E gli diede una così forte mancia, che quello fece girare la macchina, per andarsene, fischiettando il ritornello di una canzone salace.
Trovò la portinaia in una stanza a vetri, che sembrava un salotto. La casa era di lusso. La donna s’accordava all’ambiente. Indossava un abito di seta e sedeva inoperosa con le gambe accavallate e ben visibili. Aveva un musettino da furetto, con le orecchie leggermente ad ansa e tutte le linee del volto, che fuggivano irregolari.
Sorrise al giovanotto, che entrava.
«Desidera?».
«Qual è l’appartamento che aveva in affitto il senatore Magni?».
«Ah!».
Si rizzò in piedi.
«Come dice?».
«Vorrei visitarlo. Sono un commissario di polizia».
La donna prese sul tavolo un registro e l’aprì.
«È questo» indicò sul libro, seguendo col dito una linea di parole, spaziate nelle caselle delle finche.
«Desidero visitarlo».
Non guardò neppure il registro, mentre quella lo aveva aperto e lo sciorinava, per dimostrargli che era in regola.
Prendo le chiavi.
Le staccò da un quadro. Era un mazzettino di due chiavi inglesi piccine e tutte denti.
«Debbo accompagnarla?».
«Naturalmente».
Pochi gradini. Una porta lucente come specchio.
«Vado avanti ad aprir le finestre».
«Non importa. Accendete la luce».
Si sentiva avvolgere da un odore pesante e complesso di fumo, di acqua di colonia, d’altri profumi dolciastri.
Nell’anticamera c’era una cassapanca, un divano, un tavolino. In terra un grande orcio di terra cotta, che serviva da portaombrelli. Nessun segno di casa abitata. Anche i due quadri a olio appesi alle pareti erano senza espressione, quasi fossero stati fatti a serie.
La portinaia spalancò la prima delle tre porte, che si aprivano una per lato, di fronte e di fianco alla porta di ingresso.
«Il bagno».
Bianco e turchino, tutto a mattonelle di porcellana. Un grande specchio, di faccia alla vasca rettangolare, a linee diritte. Un’orgia di rubinetti, di chiavette, di bracci, di attaccapanni nichelati.
Anche qui il senso del nuovo, del disabitato, come il lavabo di un ristorante di lusso, per quanto sopra una mensola di vetro si allineassero alcune bottiglie d’acqua di colonia, di lozione, di aceto aromatico e vi fosse una grande spugna carnosa nella vaschetta e un accappatoio da bagno color granato accendesse una macchia contro il bianco e azzurro della parete. — De Vincenzi aveva veduto tutto con un’occhiata.
«Andiamo avanti».
La seconda porta era quella del salottino. Quando la donna girò il commutatore, si fece una luce gialla, che bagnò d’oro un vasto divano di velluto nero, una poltrona bassa, un piccolo tavolo. Sembrava una scena da teatro. Tutt’attorno alle pareti ricadeva dal soffitto un tendaggio di seta gialla. Alla finestra, una tenda pesante di velluto faceva la notte. In un angolo, il piccolo bar di palissandro reggeva le fiamme colorate delle sue ampolle di liquori. Sul ripiano brillava, accanto a due bicchieri di cristallo, uno shaker d’argento.
Tutto era intimo al modo d’una tomba.
E non un segno personale. Neppure un po’ di disordine, che avrebbe comunque rivelato la presenza di un essere vivente. Il velluto del divano era teso, liscio.
«Andiamo avanti!…».
La voce della donna suonò equivoca, torbida quasi: «Questa è la camera da letto».
Qui la luce riflessa si accese tutt’attorno al soffitto di stucco bianco, con un rosone sbalzato nel mezzo.
Alle pareti, un tendaggio azzurro chiaro; alla finestra, un’altra tenda, di velluto azzurro, più scuro, più denso.
Il letto vastissimo, basso, con un antico scialle di casimirro per coperta. Accanto a esso, ai due lati della te sta, due tavoli. Contro una parete, una grande psiche, sorretta da due colonnine alte da terra.
In fondo al letto un torcere da chiesa, massiccio, altissimo, monumentale, con il grosso cero fino e la fiamma della lampadina elettrica al posto dello stoppino.
De