Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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forza superiore alla sua ragione. Eppure, soltanto la ragione avrebbe dovuto dettarglielo. Egli non poteva, ormai, fare altrimenti.

      Quando furono in corso Plebisciti, fece fermare la macchina davanti al numero 17.

      Una casa enorme, simile a tutte le altre, che la precedevano e la seguivano. Un portone con un po’ di verde nel fondo, tra il biancore del vasto cortile, che s’apriva su altre facciate di case interne, diverse per colore e forma dal corpo principale.

      Nella portineria, nessuno. In mezzo al cortile, curvo sopra una aiuola senza fiori, a toglier la paglia di torno a una palma, che l’imminenza dell’aprile liberava dal suo riparo invernale, era un uomo con una specie di spolverina nera, lucida, che gli arrivava quasi ai talloni.

      De Vincenzi avanzò e i suoi passi, scricchiolarono sulla ghiaia. L’uomo si raddrizzò, voltandosi. Ancora ave va le mani piene di paglia lunga e nerastra. Due occhi nerissimi in un volto abbronzato, magro sino ad aver la pelle tesa sulle mandibole e sui pomelli sporgenti. «Desidera?». «Un’informazione». «Non c’è mia moglie in portineria?». «Non c’è».

      «Starà preparando da mangiare…». Il portinaio gettò la paglia sulla terra nuda e soda dell’aiuola, battè le palme una contro l’altra, se le fregò ai lembi della spolverina. «Di che si tratta?». «Voi siete il portinaio?». «Sì. Ma lei chi è?».

      «Se vi chiedo un’informazione confidenziale, saprete tacere d’avermela data?». L’uomo ebbe un gesto.

      «Degli inquilini io non so nulla. Né del loro denaro… Non si guarda nelle tasche di nessuno noi!… Non conosco le rendite e i guadagni… Da me lei non potrà tirar fuori proprio niente». Il commissario sorrise. «Non sono un agente delle tasse!». L’altro alzò le spalle.

      «Ne vengono sempre. Che cosa vuole, allora?». «Ho bisogno di sapere dove si trova… in campagna… la moglie del dottore Marini. Il suo indirizzo, insomma». L’indifferenza un poco sdegnosa del portinaio si fece ironica. «Lo chieda al marito!».

      Lo guardava con sospetto. Gli occhi neri avevano lampi di malizia.

      De Vincenzi non voleva dire chi fosse. Con quella sua bonarietà espansiva e cordiale, il dottor Marini doveva essersi guadagnata certo la confidenza dei propri portinai. O quell’uomo o sua moglie glielo avrebbero riferito. E lui a ogni costo non lo voleva. Meglio era passare per un innamorato da marciapiede, per uno sfaccendato, che corre dietro all’avventura.

      «Eh! Già…» disse, sorridendo con un impaccio pieno di sottintesi. «È proprio al marito che non voglio chiederlo».

      Trasse dal taschino una moneta da venti lire e la tenne fra le dita.

      «Nessuno saprà che siete stato voi a dirmelo».

      L’uomo guardò la moneta e si passò di nuovo le palme sui fianchi e sul petto, per pulirsele.

      «Sono le sette passate… è l’ora in cui il dottore torna per la cena…».

      «Chi c’è in casa?».

      «La domestica… La cameriera è andata via con la padrona…».

      Abbassò la voce: «Sono andate a Pegli… Villa Doria…».

      E tese la mano, con un movimento furtivo, guardandosi attorno.

      Il pezzo d’argento scomparve nella tasca del panciotto, sotto la spolverina lucida.

      De Vincenzi uscì e discese lentamente corso Plebisciti e poi i viali alberati di corso Indipendenza.

      Pegli, Villa Doria. Sarebbe partito alle 21 per Genova, dove avrebbe dormito. Poteva essere di ritorno a Milano alle 14 del giorno dopo, che era domenica. Aveva ancora più di ventiquattr’ore per preparare la «seduta» di lunedì sera.

      Quello era un tentativo disperato. Avrebbe dato gli effetti che avrebbe dati. Ma non gli rimaneva altro da fare. Prove? Dove trovare le prove? Aveva lavorato soltanto sopra indizi apparenti. Ecco: su nient’altro che sulle apparenze psicologiche. E l’anima umana ha così strani e tortuosi e profondi meandri in cui nascondersi!

      Lui aveva realmente paura di concretare a parole, anche soltanto dentro di sé, la teoria che s’era formata.

      Dacché, nel suo spirito una teoria si era andata concretando. Oscuramente egli sentiva dove si trovava la spiegazione del mistero. Ma gli mancavano troppi dati, troppi anelli di congiunzione, per poter concludere e per potere agire sulla base delle proprie conclusioni.

      Eppure, agire doveva. Gli otto giorni chiesti al Questore e al giudice sarebbero terminati martedì prossimo. Quarantott’ore di tempo. Credere — come per altri delitti era accaduto — che il delinquente si tradisse con qualche azione imprudente o disperata non doveva neppure sperarlo. L’autore di quei due assassinii aveva una completa padronanza di se stesso e dominava l’ambiente nel quale si muoveva con assoluta sicurezza a quel modo con cui, forse, aveva dominato la stessa vittima, quando l’aveva condotta a morire nel negozio del libraio.

      De Vincenzi camminava sotto gli alberi, in mezzo a uno dei viali paralleli, fra due linee di panche, sulle quali sedevano mamme e governanti, balie e domestiche. Le panche si andavano vuotando. Attorno a lui era uno sciamare di bimbi, che correvano, spronati dalla voce delle accompagnatrici.

      Il giorno moriva con la rapidità dell’agonia crepuscolare, che precipita i suoi ultimi istanti, in un bagliore terso e diafano.

      In lontananza, dietro alla città, al di sopra dell’aureola di San Francesco — il santo d’Assisi, che si eleva sottile e stilizzato come un volo di rondini, tutto purità, slancio, passione consumatrice, in mezzo a piazza Risorgimento — ancora gli ultimi raggi del sole tingevano il cielo di rosso.

      De Vincenzi dimenticò se stesso, il mistero di quel delitto, il suo intimo martirio d’indagine.

      Non fu più e soltanto che una creatura umana in perfetta comunione con la Natura, sotto quegli alberi verdi, tra quell’infanzia garrula, col volto che guardava al cielo. E a un tratto si sentì solo, unico, avulso da tutti gli altri esseri e dalla terra. Fu una sensazione incomparabile, prodotta forse in lui dalla lunga tensione nervosa di quei giorni.

      Le tenebre e poi la luce delle lampade lo richiamarono alla realtà. Prese un tranvai della circonvallazione che lo portò, dopo un giro interminabile, a casa sua, al Sempione. Aveva deciso di partire nelle prime ore del mattino. Sapeva che c’era un treno alle quattro. Prima delle otto sarebbe stato a Genova e dopo mezz’ora a Pegli.

      Scese alla fiorita stazione di Pegli, alle otto e mezzo del mattino, dopo circa quattro ore di viaggio, fatto da solo coi suoi pensieri in uno scompartimento di seconda classe.

      Aveva già veduto il mare dal finestrino del treno, prima di arrivare a Genova. E, sulla Riviera, trovò la luminosità calda della primavera in isboccio.

      Ma una sottile angoscia gli stringeva la gola per quell’incontro imminente con una donna, che non conosceva e che pure continuava a vedere viva davanti a sé, con quel suo volto regolare, a cui soltanto i pomelli leggermente salienti davano espressione. Le ciglia depilate e disegnate a matita… i capelli ariosi, tagliati corti… un sorriso di felicità sui denti perlacei… E tutti i pomeriggi o quasi, fino a otto giorni prima, quella donna era solita entrare nell’appartamento di via Abbondio Sangiorgio e sedere sul divano di velluto nero…

      Che cosa le avrebbe detto?

      E, se non fosse stata lei, la moglie del dottor Marini, a essere l’amante del senatore? Perché, insomma, lui non aveva nessuna ragione specifica, nessuna prova, per crederlo.

      Quando l’autista gli disse che ogni volta ella scendeva dall’auto sul piazzale Tonoli e si avviava pel viale dei Mille, egli aveva avuto la rivelazione improvvisa di quella che ritenne subito una verità. Ma, se la sua intuizione fosse stata errata? Viale dei Mille conduce a corso Plebisciti, ma conduce anche altrove…

      «Villa Doria?» chiese all’unico facchino, che stava inaffiando le aiuole, al sommo della scala, davanti agli uffici