Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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davanti.

      Li mosse, allora, li trasportò, tentò di farli combaciare. Un giuoco di pazienza da mandare all’inferno Giobbe o Tobia. Eppure, si trattava di leggere nel profondo del cervello e del cuore umani, che sono sempre più chiari e aperti, per tortuosi sfuggevoli mitomani che siano, di quanto gli uomini stessi non credano.

      Ma si trattava soltanto di questo?

      Era veramente sicuro di possedere tutti gli elementi del problema? E se proprio quello essenziale gli mancasse?

      I viaggiatori entrarono e uscirono dal suo scompartimento, si mutarono alle stazioni, una vecchia signora rimase per tutto il viaggio seduta di fronte a lui. Egli non li vide, anche se in corti istanti li guardava, tanto era assorto.

      Discese dal treno, a Milano, come se fosse uscito da un lungo sogno, popolato di fantasmi.

      Si recò direttamente a San Fedele.

      Per la strada, in città, aveva ritrovato la sua apparenza serena. Molto, effettivamente, lo era. Quel viaggio, senza dubbio, gli aveva fatto compiere un altro passo gigantesco verso la verità.

      Sani lo accolse con la gioia silenziosa, che lui sempre provava, quando lo rivedeva, anche dopo poche ore di assenza.

      «Novità?» chiese De Vincenzi, andando a sedere al suo tavolo.

      «Nessuna d’importanza, se parli, come credo, dell’assassinio del senatore. Il giudice ha fatto mettere in libertà il bigatt e ha mandato a San Vittore l’uomo di Harrington, quel Panzeri… Capo d’accusa: falsa testimonianza e calunnia. Se lo condannano, avrà il fatto suo…».

      De Vincenzi si rannuvolò.

      «Poteva aspettare! Non gli avevo chiesto che otto giorni di pazienza ed essi terminano dopodomani…».

      «Ha fatto tutto da sé, il giudice! E io non l’ho saputo che dopo».

      «Lo credo. Tu non puoi averne colpa. E poi?».

      «Null’altro. Il dottor Verga è sempre a letto ammalato».

      De Vincenzi annuì con un cenno del capo.

      «Ieri sera e questa mattina presto, miss Patt si è recata a trovarlo».

      «Naturalmente».

      «La vedova continua a rimanere chiusa in casa…».

      «Anche questo è naturale».

      «Di Fioretta Vaghi… l’infelice innamorata di Verga… nessuno ha più parlato…».

      De Vincenzi, ascoltando il collega fargli quel rapporto circostanziato, si mise a sorridere.

      «Sorridi?».

      «Di te. Devi esserti imposto un vero esercizio mnemonico, per passare in rivista come fai tutte le persone del dramma».

      «Ieri sera… tu non c’eri… mi annoiavo… ho messo giù la lista di coloro, che da vicino o da lontano sono entrati nella faccenda».

      «Bravo! Dammela. Mi servirà, per fare gl’inviti di domani sera».

      «Gl’inviti?» chiese Sani, togliendosi dalla tasca un foglio piegato in quattro. «Offri un ricevimento agli… attori?».

      «Qualcosa di simile. Lo saprai, perché dovrai intervenirvi anche tu assieme a Cruni, sebbene non proprio nella sala…».

      Aveva preso il foglio e, apertolo, lo aveva scorso.

      «Sì. Mi sembra che tu non ne abbia dimenticato nessuno… di quelli che conosci».

      E mise il foglio spiegato davanti a sé, sul tavolo.

      «Oggi è domenica. Non si può far nulla. Sarà per domattina… Dicevi, dunque? T’eri fermato a Fioretta Vaghi…».

      «Sì. Quel pregiudicato… Santini, il fratello della povera Norina… s’è fatto trovare a casa a ogni visita degli agenti… E non sembra che in questi giorni abbia commesso nulla d’irregolare».

      «È certo che la morte della sorella è stata per lui un colpo forte!».

      «Il dottor Marini è andato ieri sera a far visita alla signora Magni, che non lo ha ricevuto…».

      «Come lo sai?».

      «L’autista!… Quel ragazzo, da quando ieri lo interrogasti, crede di esserci diventato indispensabile e ieri sera tardi me lo son visto capitar qui a riferirmi tutto quello che era avvenuto durante il pomeriggio».

      «Harrington?».

      «Sorvegliato. Ieri sera il rapporto di Paoli non segnalava nulla d’importante… Oggi, Paoli non s’è ancora veduto…».

      «Bene. Mi sembra che tu non abbia dimenticato nulla… Mentre io ho dimenticato qualcuno e qualcosa…».

      Suonò il campanello.

      «Debbo andarmene di là?» chiese Sani.

      «Ma no…» disse subito il commissario e si volse al piantone, ch’era apparso sull’uscio. «Chiamami il brigadiere Padovani, alla Squadra del buon costume».

      Il piantone scomparve.

      De Vincenzi spiegò a Sani: «Ho dato un incarico a Padovani… fin dal primo giorno che cominciammo l’inchiesta… e non ne ho saputo più nulla… È vero che io stesso mi ricordo di lui soltanto adesso…».

      E alzò gli occhi sul brigadiere che entrava, con quel suo passo elastico e scivolante, più danseur mondain che mai.

      «Venite un po’ qui, voi!… Martedì notte che faceste?».

      «Girai tutti i locali notturni, cavaliere… Non ne ho dimenticato uno solo!».

      «Ebbene?».

      «Niente! In nessun luogo, tra la notte dal lunedì al martedì, hanno veduto il senatore Magni… In parecchi locali era conosciuto… negli altri, ho mostrato la fotografia, che mi feci dare da Bertolò, ma né i camerieri, né i padroni, né i direttori ricordano di averlo veduto… Se anche è entrato in qualche caffè, non deve esservisi fermato, perché altrimenti me lo avrebbero detto…».

      «Ho capito. Grazie. Potete andare».

      Padovani s’inchinò e uscì.

      «Un altro buco nell’acqua!» esclamò De Vincenzi, guardando Sani. «Da quando ho cominciato a occuparmi di questo affare, non ho potuto raccogliere una prova, una sola! Se dovessi far condannare qualcuno… per quanto convinto della sua colpevolezza… non troverei al mondo un solo collegio, giudicante a darmi ragione!».

      «Qualcuno o… qualcuna?».

      «Pensi che possa essere stata una donna?».

      «Ci sono troppe donne di mezzo! Sta diventando un’ossessione».

      «Il fatto non è privo di significato, mio caro! Te lo dico io! Ma non nel senso che credi tu. Non è delitto che può esser stato commesso da una donna, questo! E poi c’è l’assassinio di Norina… nessuna donna avrebbe potuto commetterlo!».

      «Hai ragione! Ciò non toglie, però, che le donne siano troppe!».

      «Debbono esserlo!».

      «Le hai contate? Contale!».

      «Ho la tua lista. La signora Magni…» e alzò la mano chiusa, facendo scattare un dito a ogni nome «miss Patt… Fioretta Vaghi… la signora Sorbelli…».

      «E sua figlia…».

      «Quelle due contano per una. La madre ha valore nel quadro in quanto è medium e, nella vita, non ha valore affatto, senza la figlia. Dunque, sono quattro per ora… E poi c’era Norina, poveretta!… E poi un’altra signora, che tu non conosci e che io sono andato a trovare a Pegli! Ecco! Sono sei donne…».

      «Sei