dal letto. Aveva veduto, in una grande cornice d’argento, il volto d’una donna.
Sentì immediatamente che era lei.
Fu una delusione. Questa qui era bella come quasi tutte le donne sono belle. L’osservò, prendendo la cornice in mano e accostandosi l’immagine allo sguardo. I capelli corti erano arricciolati e ariosi attorno al volto, dal piccolo naso disegnato finemente e che pure mancava di linea. Le labbra sorridevano, scoprendo la chiostra dei denti piccolini. Il mento pronunziato allungava un poco l’ovale. Impercettibilmente, i pomelli salivano ed era questo l’unico segno, che caratterizzasse quel volto, altrimenti comune. Gli occhi ridevano anche essi, sotto l’arco sottilissimo delle ciglia depilate e disegnate col lapis.
Il giovane sentì pesare su di lui gli sguardi ironici, carichi di lubricità della portinaia.
Depose il ritratto in fretta e chiese con voce, che non riuscì a render ferma: «È lei?».
«Sì, signore» rispose la donna, sempre fissandolo con sfrontatezza.
«Non ci sono altre stanze?».
«No» e aveva l’aria di dire che quelle bastavano.
«Il mobilio apparteneva al professore?».
«Certo. Provvide lui a tutto, quattro anni or sono, quando prese in affitto l’appartamentino…».
De Vincenzi pensò che anche tutto quel velluto e quelle sete e i mobili e il bar e la cornice d’argento avrebbero fatto parte della eredità della vedova…
Sul pianerottolo, salutò con un segno del capo la portinaia, che lo seguiva, e uscì in fretta, quasi fuggisse. Aveva l’impressione di uscire da un sepolcro.
R
Capitolo diciannove
Battute d’aspetto
Dal momento in cui si trovò per la strada — uscito appena dall’appartamento, che aveva protetto i molteplici amori del senatore Magni, De Vincenzi compì i più strani e apparentemente scriteriati atti della sua carriera di commissario.
Persino Sani, che aveva cieca fiducia in lui, dovette chiedersi se il suo immediato superiore non avesse per caso perduto il controllo dei propri centri inibitori.
Si sarebbe detto che il profumo acre e denso di quelle stanze, in cui non penetrava mai la luce del giorno, gli fosse salito, attraverso le narici, al cervello, operando su di lui come un etere.
Tornato a San Fedele, quando Sani gli ebbe annunziato l’arrivo del dottor Verga, egli, che pure aveva mandato Cruni a prenderlo a casa, non volle riceverlo.
«È realmente ammalato, e per venire da te, si è alzato da letto…».
«Ci ritorni. Gli farà bene!…».
Sani lo guardò sorpreso e non obbiettò nulla.
«È stanco» pensò. «Quando sarà finita tutta questa storia, insisterò perché prenda qualche giorno di congedo».
Ma De Vincenzi era così poco stanco, nel corpo almeno, che lo si sentì passeggiare interminabilmente, avanti e indietro per la sua stanza, fin quasi alle sei del pomeriggio.
A quell’ora aprì l’uscio, che aveva chiuso a chiave, e apparve col sorriso sulle labbra. Ma lo sguardo gli brillava in modo febbrile e il suo sorriso era più una contrazione nervosa che altro.
Andò a mettersi davanti al tavolo del collega e lo fissò.
«Vedi!» pronunciò lentamente, dopo qualche istante di silenzio. «Tutto sarebbe chiaro se non ci fossero quei ferri chirurgici e quel camice. Sono essi che guastano ogni teoria! Non riesco a farli quadrare col resto, neppure se prendo i fatti che conosco e torco loro il collo…».
Sani intuì quanto quel problema lo martoriasse e non osò sorridere.
«Avranno appartenuto al professore…» disse, ricorrendo alla ipotesi più semplice.
«No! Non si va al Sempioncino con quattro ferri chirurgici e un camice nelle tasche».
«Li avrà avuti con sé l’uccisore…».
«Di sua proprietà?».
«Può darsi. E questo aiuterebbe a trovarlo».
«Troppo! Si può credere che un uomo, diabolicamente abile, come colui che ha ucciso il senatore Magni, fornisca un indizio decisivo contro di sé, con la coscienza di farlo e senza esservi spinto dalle circostanze? Per quanto abbia voluto sfidare gli uomini e forse il destino, non aveva ragione di esagerare a tal punto! Sarebbe stata sadica voluttà di denunziarsi, di perdersi, la sua!…».
«Sei sicuro che quel pacco e quel biglietto abbiano connessione con l’assassinio?».
«No! Non ne sono sicuro. Ed è proprio questo che mi turba! Come ammettere che soltanto il Caso abbia fatto coincidere i due fatti? Allora esiste realmente una forza inconscia, intelligente, che governa e regge e crea persino l’impossibile, perché da esso sgorghi la luce?». Rise e aggiunse: «Per ora sarebbero le tenebre…». «C’è la calligrafia del biglietto…». «Già, ma non aiuta. Non è quella dell’assassino». «Tu lo conosci?». «Chi?». «L’assassino».
«No!».
«Ma devi pur avere un sospetto fondato?». De Vincenzi alzò le spalle.
«Che conta? Non corro mai appresso ai sospetti, io! E tanto meno questa volta. Se ti dicessi che affermo con tanta sicurezza che la calligrafia del biglietto non è quella dell’assassino, pur non avendone fatto alcun controllo, soltanto perché la mia intuizione me lo dice, penseresti che sono maturo per Mombello…».
Girò su se stesso e tornò nella sua stanza. Poco dopo ne usciva, col soprabito e il cappello. «Te ne vai?».
«Sì. Avverti il Questore. Rimarrò assente parecchie ore. Forse, tutta la notte. E in tal caso non tornerei qui che domani a mezzogiorno. Può darsi, anche più tardi… Dipende dal viaggio che ho da fare».
«Vai lontano?».
«È questo che ancora non so. E per saperlo, dovrò correre il rischio di rovinar tutto».
Sani lo guardava e non riusciva a dissimulare completamente la sua preoccupazione.
«Sei più enigmatico del delitto stesso!».
«Perché, vedi!, a giuocare con gli enigmi se ne prende l’abitudine. E una forma di pragmatismo subconscio, che opera in noi. E questo qui è un vero puzzle animato del quale non si riesce a trovar tutte le parole, sino a formarne una frase logica».
Tacque un istante.
«Ancora l’azione più orrenda è la più spiegabile! A guardar bene, nello specchio d’acqua della Darsena si vede il volto dell’assassino! A rivederci».
Uscì in fretta, lasciando Sani dolorosamente colpito da quel suo modo.
Era ancora giorno.
L’animazione per le vie appariva intensa. Per la Galleria e sotto i portici si faceva fatica a passare. Egli, giunto in piazza della Scala, tornò indietro e, ripassando davanti a San Fedele, prese via San Paolo, attraversò il corso e si trovò in piazza Beccaria.
Poco dopo entrava nella libreria di via Corridoni, con le mani in tasca e l’aria indifferente dell’amatore di libri.
Gualtiero Gerolamo lo guardò sorpreso e un lampo di angoscia gli passò nei miti occhi umidi. Chirico sal tellò dalla scrivania al suo fianco e lo salutò, togliendosi il cappello e grattandosi in testa. «Signor commissario…».
C’erano un paio di clienti, che frugavano nelle scansie. Uno di essi, corpulento e barbuto, con una grossa catena d’oro sul ventre, aveva tra le mani un opuscolo e ci dissertava sopra in bolognese, senza che nessuno lo ascoltasse. S’interruppe, per guardare il sopravvenuto di sopra