Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


Скачать книгу

s’era messo un abito grigio, dal taglio impeccabile. Anche Chirico, così miserello e sordido. Persino Gualmo con l’abito scuro delle domeniche.

      Doveva essere quella donna vestita di nero, bianca in volto sotto le due ali corvine dei capelli, che, seduta in mezzo alla stanza, taceva, con gli occhi fissi nel vuoto, a spandere attorno a sé una luce irreale, a dare a tutte le cose e alle persone un po’ della propria fissità, rendendole quasi inumane.

      Certo, anche miss Patt, dopo qualche istante, perdette la sua naturalezza. Il sorriso che aveva sulle labbra si fece troppo segnato, quasi convulso.

      De Vincenzi guardava all’ingresso. Soltanto la palpitazione leggermente affrettata delle narici sottili tradiva in lui l’ansia e l’attesa.

      Sorrideva con un movimento macchinale e faceva girare attorno al medio, spingendolo col pollice, un anello d’oro liscio, del quale non si ricordava che nei momenti di orgasmo.

      Ma ognuno era troppo intento a controllare se stesso, per poter notare le reazioni altrui.

      Entrò la vedova in gramaglie e tutti le s’inchinarono, tranne la signora Sorbelli, che non la vide neppure.

      De Vincenzi le si fece incontro.

      «Voglia perdonarmi, signora» disse a voce bassa. «Forse, è una prova troppo dura per lei e pel suo dolore».

      «Se si tratta davvero di quanto mi ha velatamente accennato nella sua lettera… e se io ho saputo legger bene, la ringrazio di farmela subire».

      E sedette.

      Tutti gli altri rimanevano in piedi.

      Nessuno chiedeva che cosa si attendesse, né quale fosse la parte, che gli era stata assegnata.

      Che fossero lì per qualcosa di molto grave, tutti sentivano. E ognuno guardava con diffidenza agli altri.

      Presenti fra loro erano anche due cadaveri.

      Si udì una voce d’uomo e poi un’altra che rispondeva. La seconda era calda, esuberante, quasi gioviale.

      De Vincenzi si volse di scatto verso la porta d’ingresso.

      Apparivano il dottor Marini e Pietro Santini.

      Il giovanotto venne con la sua aria equivoca, la giacca troppo attillata, i pantaloni troppo larghi, lo sguardo obliquo, a completare il quadro. Fu un’altra macchia di colore. Un altro tipo sulla scena.

      Marini avanzò subito verso De Vincenzi.

      «Ho incontrato questo giovanotto per le scale» disse. «Cercava il Circolo. Gli ho detto di seguirmi. Spero non essermi ingannato, nel condurlo qui».

      «No» rispose De Vincenzi. «E ringrazio lei, dottore, per non aver mancato. Come vede, io sono tenace nei miei propositi. Mi ero messo in testa di assistere a una seduta spiritica».

      Marini si guardava attorno.

      Scorse la signora Magni ed ebbe un gesto. Sussurrò al commissario: «Ma perché proprio lei? Ha fatto male, ha fatto male, De Vincenzi!».

      Lo rimproverava con aria paternamente indulgente e pure profondamente addolorata.

      De Vincenzi si strinse nelle spalle.

      «Lo ha voluto!» disse.

      «Ah!» sospirò Marini. «Ma non conti su di me per addormentare la medium…».

      «La guardi» interruppe il commissario, indicando con un movimento del capo la signora Sorbelli, che non s’era mossa. «Non le sembra che basterà spegnere la luce, perché cada in trance?».

      Anche la vedova volse lo sguardo verso il lampadario, che ardeva al soffitto, e un lampo di sgomento passò negli occhi di tutti.

      «Ma lei non la spegnerà! Sarebbe un’imprudenza della quale non calcola le conseguenze. Non si scherza con l’aldilà. Non si scherza coi morti, commissario!…».

      De Vincenzi andò a chiudere la porta d’ingresso e poi, nel tornare, l’altra che dava sul salone.

      Il dottor Marini si manteneva calmissimo. Sembrava soltanto dolorosamente stupito che anche gli altri non si unissero a lui nel tentar di convincere il commissario della poca opportunità di un esperimento, fatto, in quelle condizioni.

      «Tra i fiori c’è l’astero, che è il simbolo di Cristo!».

      Una voce, che veniva d’oltretomba. La medium parlava e tutte le luci erano accese.

      Le due donne e i sette uomini ebbero un sussulto. La vedova rabbrividì sotto le gramaglie.

      De Vincenzi fissò la donna seduta in mezzo alla stanza, che aveva parlato, senza muovere le labbra. Fingeva o era realmente caduta nel sonno ipnotico? Che cosa avrebbe detto ancora? Da quale profondità aveva tratto quella frase, vuota di senso o intensa d’un significato grave e profondo?

      Lui non aveva troppo abusato, forse, di quella creatura eccessivamente sensibile, che doveva avere i nervi tesi sino allo spasimo, vibranti al tocco invisibile di onde eteree?

      Si sentì afferrare per un braccio. Era Marini.

      «Stia attento! Quella signora è ammalata. Lei si sta assumendo una responsabilità di cui mi auguro voglia rendersi conto».

      De Vincenzi non rispose.

      La donna adesso taceva.

      Aveva deposto le mani sulle ginocchia. Il corpo le si protendeva leggermente in avanti.

      A un tratto, prima che alcuno potesse sostenerla, rovesciò il capo all’indietro sullo schienale e, poiché ebbe gli occhi rivolti verso la luce, agitò le mani frementi, sollevandole in alto.

      De Vincenzi sentì istantaneamente che gli avvenimenti si mettevano da soli pel loro corso e che nulla più avrebbe potuto arrestarli.

      Un senso di gelo gli si fece sulla nuca e alle terapie. Ebbe l’impressione di non aver più la possibilità dell’iniziativa, ma d’essere anche lui sotto il dominio di una forza tanto più poderosa, quanto più occulta.

      Andò alla parete e spense la luce.

      Alcune voci esclamarono: «No!» con terrore.

      Nel buio si sentiva il respiro oppresso dei presenti e quello rantolante della medium.

      Che cosa sarebbe accaduto?

      «7 rododendri sanguigni e paonazzi. le clematidi turchine come fiamma… le campanule amorose… E poi c’è la genzianella, che ama il sole e l’aconito con la sua piuma di corvo…».

      Parole. E la voce le proferiva tutte eguali, senza espressione, così fredde da sembrare il filo d’una lama.

      I denti di qualcuno battevano con rumore di unghie, che percotessero tasti d’avorio.

      Ognuno guardava nel buio per vedere. S’aspettava che sorgesse un bagliore, un corpo evanescente e fosforeo, qualche manifestazione visibile di quel mistero pieno d’orrore.

      De Vincenzi non comprendeva di dove nascessero tutti quei fiori. La donna pareva si trovasse in un giardino pieno d’incantamenti. Ma quale facoltà aveva di leggere i colori con quella precisione morbosa? Nessuna delle frasi che lui le aveva apprese, poteva neppur lontanamente richiamare l’idea di un giardino fiorito.

      Era finzione?

      Era l’inconscio bisogno di parlare per parlare?

      O qualcosa di più terribile?

      De Vincenzi reagiva a se stesso. S’imponeva di rimaner soltanto spettatore, per giudicare.

      Dovette pensare ai due cadaveri, per aggrapparsi a qualcosa di solido, di esistente, di materiale.

      «Lo specchio dell’acqua è freddo e immoto e c’è un volto di donna, che mi fissa…».

      La voce s’era animata. Le parole non correvano