Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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adesso l’accesso era passato e Marini sorrideva con sarcasmo.

      «Lei crede che l’abbia ucciso, perché mia moglie mi tradiva con lui! Questo crede, lei! E sbaglia! Le dico che sbaglia. Se non ci fosse stato l’odio, non lo avrei ucciso e non avrei sopportato il tradimento. Avrei scacciato mia moglie sei mesi fa, quando la cosa cominciò. Me ne ero accorto subito. Non sono un marito cieco, io! E stavo in sospetto, perché sapevo che lui avrebbe tentato di togliermi anche quella! Ma l’odio aveva una ragione più forte, aveva radici tanto profonde, che non era più possibile strapparle! Lo vede che lei non sa nulla, ancora?!».

      Si guardò attorno. Fece per muoversi verso una seggiola, Sani la prese e gliel’accostò. Sedette. Doveva sentirsi stremato. Le mani gli continuavano a tremare legger mente.

      De Vincenzi fece un segno col capo agli agenti, che erano rimasti in mezzo alla stanza, pronti a intervenire, e i due si ritrassero nel fondo, presso la porta d’ingresso.

      Sani aveva tratto un blocco di carta e un lapis e diede un’occhiata al commissario. Questi gli rispose di sì con gli occhi e lui andò a sedersi dall’altra parte del tavolo, dietro le spalle del dottor Marini, pronto a scrivere. Marini non se ne accorse neppure. Guardava De Vincenzi, che rimaneva in piedi, con le mani in tasca, la persona un po’ curva, lo sguardo stanco quasi stremato anche lui. Adesso che la tensione nervosa della battaglia s’era allentata, adesso che sapeva d’aver vinto, un grande dolore umano, fatto d’amarezza e di scoramento, l’aveva invaso. Quel dramma atroce gli dava il senso terribile di quanto la vita fosse cattiva, pericolosa, inutilmente irta di spine. E anche un senso di sgomento, come se un più tragico mistero e insolubile si fosse sostituito all’altro meschino e impercettibile che l’aveva tenuto sino allora. Che cos’era quella sala, con quegli uomini, con quell’uomo, che era un assassino, sotto la vasta volta celeste? La terra? Un pianeta. E tanti altri astri e pianeti, più grandi, lontani. Tanti! E sulla terra, quel punto così minimo, con un uomo il quale in quel momento doveva credere che tutti gli astri, tutti i pianeti, tutto l’universo facessero capo a lui, che aveva una tragedia tanto grande dentro di sé!

      «Le ho detto io di voler parlare e adesso mi accorgo che forse le parole non varranno a farle capire perché l’ho ucciso. L’odio per l’odio esiste! Ma in me c’era qualche altra cosa. E poi risaliva lontano! Eravamo fanciulli. In collegio. La nostra camerata, dove trascorrevamo il maggior tempo dello studio e della ricreazione, aveva un’unica finestra, che dava sul giardino. Il resto della sala era buio, tetro. Da quella finestra entrava il sole, si vedevano gli alberi, era uno spiraglio aperto sulla natura miracolosa, sulla libertà. Ognuno di noi collegiali aveva un banco tutto per sé, coi propri libri, con quanto gli apparteneva, lo consideravamo come il nostro sacrario. Ebbene, io avevo il mio banco proprio davanti a quella finestra ed era la mia felicità. Da pochi giorni mia madre mi aveva accompagnato in collegio e mi ci aveva lasciato. Avevo sofferto al distacco.

      Piangevo di notte. Mi diedero quel banco e non piansi più! Ma arrivò Magni. Era già un giovanetto, alto, sottile, assai bello. Aveva un sorriso, che conquistava subito tutti. Fu quel sorriso? Fu perché l’aveva accompagnato in camerata proprio il rettore, consegnandolo all’istitutore con molte raccomandazioni sussurrate a voce bassa? Fu perché il mio destino lo volle? Il fatto è che l’istitutore mi ordinò di cedere il mio posto al nuovo arrivato! Da quel momento, l’odiai. Alla notte facevo sogni orribili e sempre lo vedevo morto, strangolato da me! È la verità! Mi sentivo in preda a un’ossessione. Per vincerla, tentai di essergli amico. Ci chiamavano gli inseparabili. Ma lui aveva accettato la mia amicizia, come dovutagli, quasi fosse la sottomissione di schiavo a padrone. Ogni giorno di più faceva pesare su me la sua superiorità. Lui aveva tutto e io nulla. Vivevo della sua luce! Mangiavo gli avanzi dei suoi pasti! Quando fummo più grandi, non potevo guardare una sola delle nostre compagne di scuola, senza che lui, subito, non l’avesse fatta innamorare di sé! L’odio per l’odio! Ah! Esiste. Se esiste!».

      Tacque.

      Si sentiva il suo respiro e il rumore della matita di Sani sulla carta, contro il legno del tavolo.

      Di là, Sigismondi si muoveva, disse qualche parola. De Vincenzi corse a chiudere la porta della stanzetta e poi tornò a mettersi davanti all’uomo seduto.

      Nessuno sapeva che Chirico e Pietrosanto esistessero ancora, nel loro angolo.

      «Ha capito, adesso? Comincia almeno a capire?».

      «Lo sapevo» disse lentamente De Vincenzi e l’altro lo guardò sorpreso.

      «Per questo, allora, ha scoperto che ero stato io a uccidere? Per questo mi ha teso il tranello? Per questo ha mandato a prendere quel libro, a casa mia?».

      «Anche per questo».

      «Meglio così!».

      Tacque ancora. Poi sollevò il capo e lo sguardo gli brillava.

      «Se non ci fosse stato lei, nessuno mi avrebbe scoperto! Il mio è stato un capolavoro! Vuol sapere come l’ho ucciso? Oh! Debbo riconoscerlo: non avevo stabilito che fosse proprio per quella notte. Ero ben determinato a farlo; ma aspettavo che mi si presentasse l’occasione. Volevo ucciderlo, senza che si potesse mai attribuirne a me la colpa! Stavo in agguato, come il cacciatore d’una belva. Sapevo che era l’amante di mia moglie. Anche quella mi aveva portata via! L’avevo preveduto, del resto, e non avevo fatto nulla per impedirlo. Sarebbe stato inutile. E lei non ne aveva neppur colpa! Lei non faceva che cedere a una forza più forte. Doveva amarlo e tradirmi, perché il mio destino voleva così!».

      De Vincenzi rivide l’alcova di via Abbondio Sangiorgio, il ritratto nella cornice d’argento, la donna distesa sulla sedia a sdraio, contro il sole e il mare, con la vestaglia azzurra e i capelli d’oro e quei piedini nudi nelle babbucce…

      «Quella notte» continuò il dottore, con voce trionfante, come se narrasse la più bella delle sue imprese «venne lui a cercarmi. Sapeva che alla sera andavo sempre in un caffè di Porta Venezia ed entrò lì dentro che erano le dieci. Mi sembrava nervoso. Si mordeva le labbra a quel modo che faceva sempre, quando qualcosa o qualcuno lo contrariava. «Andiamo a camminare» mi disse, dandomi un ordine, secondo il suo solito. Girammo tutta Milano. Lui parlava. Diceva di averne abbastanza delle donne e che esse lo annoiavano. Mi parlò di sua moglie. Io a bella posta gli parlai della mia. Covavo il mio odio. Vivevo di esso. Mi era necessario come la cocaina a un intossicato. A più riprese palpai la rivoltella, che avevo nella tasca. Avrei voluto condurlo verso la campagna. Forse, pensavo già a ucciderlo. Ma lui non volle. Entrammo in quattro o cinque bar, senza sederci. Bevevamo in piedi. Lui beveva whisky. Volle che anch’io ne bevessi. Le idee mi divennero lucide, il cervello mi si rischiarò. Fu dopo il quarto o quinto whisky, che decisi di ucciderlo quella notte stessa. Ma come? Improvvisamente, mi ricordai d’avere in tasca le chiavi della libreria di via Corridoni…».

      Dall’angolo di Chirico e di Pietrosanto venne lo scricchiolio delle seggiole e i due uomini mandarono un «Oh!» di stupefazione e di protesta.

      Questa volta anche De Vincenzi ebbe un moto.

      La matita di Sani correva sempre sulla carta e i fogli scritti si ammucchiavano sul tavolo.

      «Come le avevo? Il destino, le dico! Una quindicina di giorni prima ero entrato in quella libreria, per cercare un libro di occultismo. Avevo in mano la mia borsa, un giornale, i guanti, non so che altro. Il fatto è che, quando volli andarmene, m’accorsi che avevo posato tutta quella roba sulla scrivania del proprietario. Andai a prenderla e vidi accanto ai guanti un piccolo mazzo di due chiavi. Ero distratto… sa come avviene?… quelle chiavi somigliavano alle mie… credetti di avervele posate io, assieme ai guanti… le presi e me le misi in tasca… Fu dopo qualche giorno che mi accorsi di averle e dovetti lambiccarmi il cervello, per ricordarmi dove le avevo prese. Avrei voluto riportarle subito. Non lo feci. Non ne trovai il tempo. O forse fu sempre il destino, che non volle… Quella notte, quando Magni mi disse di voler tornare a casa e ci avviammo dalla piazza del Duomo, dove ci trovavamo, verso Porta Vittoria, passando per via Corridoni, mi ricordai delle chiavi. Pensai subito a ucciderlo lì dentro e poi a richiudere il negozio, nessuno avrebbe potuto sospettare che fossi stato io. Ebbi persino uno scoppio di riso dentro di me, immaginando