Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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aggiunsi. “Chirico me le ha date, perché andassi a prendermi io stesso il libro, questa notte…”. Non c’era nulla di strano. Chirico è il segretario di questo Circolo e Magni lo conosceva benissimo e poteva credermi. Ma non voleva. Diceva di esser stanco. Continuò a camminare fino al principio di viale Bianca Maria. Vidi che mi sfuggiva. Ma conoscevo un’altra debolezza sua, ch’era poi un aspetto del suo erotismo morboso e vizioso. “Lo sai che Chirico ha una collezione di libri porno grafici?”. Allora, venne. Tornammo indietro. La strada era deserta. Neppure un’anima al largo di via Cesare Battisti. Aprii la saracinesca e dovemmo metterci in due, per sollevarla. Quando fummo dentro, la riabbassai. “Se vedono la luce” dissi “ci prendono per due ladri!”. Lui rideva. “Dove sono gli erotici?” mi chiese. Dovemmo cercarli. Finalmente, li trovammo. Lui prese subito il volume della Zaffetta. Ne scorse qualche pagina. Mi voltava le spalle. Lo sentii dire “Ah, sapevano vendicarsi delle donne, in quel tempo! Le trattavano da quel che erano! P… e nient’altro!”. Allora, sparai. Fu più forte di me. Lo avrei fatto, forse, anche se lui non avesse detto quelle parole; ma furono esse che agirono su di me come una frustata. Mi sembrò che in quel momento parlasse di mia moglie, che m’insultasse a sangue, insultando lei!…».

      Un altro silenzio.

      Chirico si chinò verso Pietrosanto a mormorargli una frase e Gualmo lo guardò coi suoi grandi occhi acquosi, senza capire.

      «Poi lei prese un sacco» disse De Vincenzi «che trovò in un angolo, e segnò la striscia del corpo sulla polvere, per far credere che fosse stato trasportato là dentro cadavere, dal di fuori?…».

      De Vincenzi parlava lentamente. Voleva dar tempo a Sani di scrivere. Oramai, per lui tutto era così chiaro, che avrebbe potuto fare a meno di muovere domande, tranne una che si riservava per ultima.

      «Ha capito anche questo? Sì. Era caduto davanti alla porta della terza stanzetta. Mi guardai attorno.

      Volli completare l’opera. Afferrai il libro, che lui aveva lasciato cadere e me lo misi in tasca. Perché? Non so! Mi sembrava che quel libro mi avrebbe sempre ricordato la mia azione e volevo tenermelo. Le ho detto che l’odiavo! Ma nello stesso tempo, mi preoccupai di confondere gli indizi, di perfezionare il delitto. Segnai la striscia per terra. Aprii la porta, che dava sul cortile, uscii e vidi che il portone era aperto. Me ne sarei andato per di lì. Così non avrei avuto bisogno di rialzare la saracinesca, che sarebbe stato sempre un rischio. Tornai indietro, presi il cappello di Magni, spensi tutte le luci, accostai la porta dietro di me, in modo che sembrasse chiusa. Quando fui in istrada la vidi sempre deserta e diedi un giro di chiave alla saracinesca, per dar meglio l’impressione che avessero introdotto il cadavere nel negozio dalla porta del cortile…».

      «E non pensò che uno dei proiettili era andato a conficcarsi in un libro, di fronte al cadavere!».

      «No, a questo non pensai. E come avrei potuto? Ma pensai al cappello!».

      Fu un grido di vittoria il suo.

      «Me lo tenevo stretto contro il petto, sotto il soprabito. Andai a piedi fino in via Commenda e lo lasciai cadere contro il muro del Dormitorio. Lo avrebbe trovato qualcuno di quegli ospiti… forse un pregiudicato… un disgraziato, certo, che non avrebbe esitato ad appropriarselo».

      Ah! Dunque, il bigatt doveva aver trovato davvero il cappello. Se Harrington non gli avesse imbrogliato quella pista! E De Vincenzi pensò alla vedova, che andava a chiedere l’aiuto del detective.

      «Sua moglie vide il libro, che lei aveva portato con sé?».

      «Sì. Come lo sa? Alla mattina, quando mi alzai, glielo trovai tra le mani. Lo avevo posato sulla scrivania del mio studio. Glielo tolsi di scatto, dicendole che lo avevo acquistato per ragioni di studio».

      Ecco, perché la donna gli era caduta davanti, di colpo, appena lui aveva nominato la Zaffetta.

      Ma adesso bisognava toccare il punto più orribile.

      «E quella ragazza?» chiese con voce gelida.

      L’uomo rabbrividì. Gli occhi gli si empirono d’orrore.

      «Ah! No! Mi faccia grazia! E mostruoso! Norina ci aveva veduti dalla finestra… ci seguì… vide che entravamo nella libreria… La sera dopo mi venne a cercare a casa. Povera disgraziata! Un’altra sua vittima. Lo amava! Mi sentii perduto… La condussi fuori con me… La feci bere… Poi… poi… sul parapetto della Darsena… E mostruoso!».

      Si coprì il volto con le mani.

      De Vincenzi guardò Sani. Tutti e due erano lividi. Sani gli fece segno d’aver scritto.

      Ma a lui toccava il compito d’insistere. Era come bere un calice di tossico.

      «Sospettava di lei, quella ragazza?».

      «No» mormorò l’assassino. «Voleva soltanto sapere. Ma avrebbe parlato! Avrebbe detto che io quella notte mi trovavo in compagnia di Magni… Non potevo non fare quel che ho fatto…».

      «E avrebbe strangolato anche la Sorbelli!».

      «Oh! Quella lì!».

      E, togliendosi le mani dal volto, diede un’occhiata alla porta chiusa. Di nuovo gli occhi gli si erano iniettati di sangue. Un ammalato, certo. Quando aveva ucciso, doveva essersi trovato in preda a un accesso di follia sanguinaria.

      «Quella lì!» ripeté.

      «Fu lei a dirle di profetizzare la morte?».

      L’altro esitò. Poi si decise.

      «Sì. Volevo mettergli paura. Sapevo che era superstizioso e che amava la vita».

      «Anche allo spiritismo lo aveva attirato per la stessa ragione?».

      «Forse. Nell’oscuro del mio animo, certo pensavo di danneggiarlo, mettendolo a contatto con qualcosa di soprannaturale e di terrorizzante».

      «E… quella donna perché si prestò alla commedia?».

      «L’avevo suggestionata. Da principio volevo pagarla; ma vidi subito che non sarebbe stato il mezzo e che era inutile, del resto. Lei non poteva non fare quel che volevo io!».

      «E questa, sera?».

      «Questa sera, ho capito subito, che avrebbe parlato».

      Ebbe un lampo. Balzò in piedi, fissando De Vincenzi. Sollevò una mano accusatrice, verso di lui. Fremeva. Di nuovo le labbra gli schiumavano.

      «Lei… lei… è stato lei a suggestionarla… a insegnarle che cosa doveva dire questa sera!».

      De Vincenzi lo fulminò con lo sguardo.

      «Risponda a questo!» martellò con voce dura. «Ha indotto la signora Magni ad andare da Harrington, con la speranza che si trovasse un innocente da far condannare?».

      Il dottore non rispose subito. Abbassò la mano. Ansava.

      «Risponda!».

      «Sì. Era il piano del cappello, che continuava».

      «Quanto ha dato ad Harrington?».

      «Lo domandi a lui. Tutto questo non ha importanza, oramai!».

      «Era vero».

      «Questa è la stessa con cui ha ucciso il senatore?».

      E traendola dalla tasca, gli mostrò la rivoltella nera.

      «Sì. Ne ho una sola».

      «Sta bene. E finito».

      L’altro disse: «Lo so. È finito».

      «Sani! chiamò De Vincenzi».

      Sani raccolse i fogli.

      «Deve firmare?».

      «No. Domani. Perquisiscilo un’altra volta e mettigli le manette».

      «Ha paura che tenti di avvelenarmi?» esclamò il dottor