Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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procurato patemi e accidenti secchi ad alcuno?

      E perché la sorte si accaniva contro di lui, Chirico, lardellandolo di colpi come un tagliere?

      «E permesso» belò una voce tapina e il segretario del Circolo saltò dallo spavento.

      Stava sulla porta Pietrosanto.

      «Avanti, perbacco! È questo il modo di entrare, senza far rumore?».

      Gualmo aveva attraversato la stanzetta d’ingresso con le sue suole di gomma silenziosa. Oh! Come avrebbe potuto fare altrimenti?

      «Ma non sono entrato!».

      Era vero. E d’entrar proprio in quel salone, nel quale vedeva tanti tavoli e tante seggiole, aveva paura. Sapeva adesso che si trattava di una seduta spiritica e per lui essa voleva dire tavoli e seggiole, che si sollevano, balzano, ricadono.

      Anche Gualmo arrivava in via Broletto dopo ore di spaventosa ansia, per quanto in lui il desiderio di conoscere il nome di quell’assassino, ch’era riuscito a introdurre un cadavere attraverso le porte chiuse del negozio, fosse tanto vivo da superare persino lo spavento dell’ignoto, a cui lo avevano obbligato ad andare incontro.

      «Venga avanti e mi aiuti a toglier tutti questi tavoli di mezzo. Ne basterà uno. Il più grande».

      E Chirico indicò un tavolo massiccio, a quattro gambe.

      Sgomberarono, accostando gli altri tavoli e le seggiole alle pareti. L’ometto volle mettere il tavolo scelto per l’esperienza proprio di fronte alla porta aperta di una delle tre stanzette, quella di mezzo. La stanzetta non conteneva che una libreria e una seggiola. La libreria aveva gli sportelli a vetri e Gualmo vide il padrone andarli a chiudere con la chiave, ch’era nella serratura e mettersela poi in tasca.

      «È qui dentro che di solito avvengono le materializzazioni… I fantasmi compaiono nel riquadro di questa porta…».

      Gualmo lo fissò.

      «Ma lei… lei ha veduto proprio?…».

      «Sì» fece Chirico sdegnoso e lo guardò con compatimento. «Che crede? Può benissimo accadere che lo spirito del senatore Magni torni in terra, per dirci il nome del suo assassino».

      Gualmo inghiottì la saliva.

      Nell’ingresso si udì rumore di passi.

      Tutti e due si volsero di scatto.

      Erano De Vincenzi, Sani, Cruni e due agenti.

      De Vincenzi, che alla mattina aveva visitato assieme a Chirico la sede del Circolo, andò subito alla porta della stanzetta di destra e guardò dentro, poi si volse a Sani: «Mettiti lì con gli altri… Portatevi le seggiole, voi tre…».

      Quando furono entrati tutti, il commissario fermò in alto e in basso la mezza porta, che Chirico aveva spalancata, e prima di chiuder l’altra chiese a Sani: «Hai capito bene?».

      «Non dubitare!».

      «Pazienza, allora, e non respirate neppure».

      Chiuse la porta e si guardò attorno.

      Anche lui era pallido; ma vide Chirico in volto e rise.

      «Un po’ commosso?».

      «Uhm!» fece l’altro e guardò l’orologio. «Son quasi le nove. A che ora verranno?».

      «Adesso».

      «Quanti sono?».

      «Quando ci saranno tutti, li conti».

      Era nervoso. Non per i molti rischi, che correva. Carriera spezzata, dimissioni, eccetera. Non ci pensava neppure. Ma perché, se gli fosse fallita quella prova, avrebbe avuto la rivelazione matematica della propria impotenza a dominare avvenimenti e uomini.

      La certezza che tutto il suo metodo era sbagliato… Che la sua pretesa di leggere nelle anime e di cercare gli indizi psicologici, invece di quelli materiali visibili, era presunzione e null’altro.

      Lui non credeva nello spiritismo, o per lo meno non credeva in esso, se non come forza ipnotica, e suggestiva.

      Ma che i morti tornassero? No! Non lo riteneva possibile. E tanto meno che tornassero giusto a tempo per smascherare un assassino.

      Sapeva, però, che altri lo credevano fermamente e contava su questa loro convinzione.

      Due ore era stato, quel pomeriggio, da solo con la signora Sorbelli, in casa di lei, mentre la figliuola si trovava a scuola, e non s’era fatto leggere le carte e neppure i fondi del caffè. Aveva parlato, quasi sempre lui, anzi, e l’altra lo aveva ascoltato con gli occhi allucinati e con le labbra tremanti.

      «Vuole proprio questo da me? Proprio questo? Ma, se cado in trance realmente, come mi avviene sempre, in qual modo potrò ricordarmi, parlare, dire quel che vuole lei?».

      De Vincenzi l’aveva rassicurata. Se avesse pensato fortemente a quanto lui le aveva detto, se le sue frasi se le fosse impresse profonde nella memoria, esse si sarebbero rivelate da sole, anche durante il sonno ipnotico. E gliele aveva fatte ripetere, quelle frasi, interminabilmente. Certo, egli contava d’averla soprattutto suggestionata.

      Ma tra poco, che cosa sarebbe avvenuto?

      Eppure, si sentiva tanto sicuro di non aver commesso alcun errore di osservazione, di deduzione, di sintesi, che non gli sembrava possibile gli avvenimenti si svolgessero diversamente di come li aveva previsti e preparati. E se anche, all’ultimo istante, gli fosse venuto a mancare qualche elemento, se gli si fosse ingranata una o più rotelline di quella delicatissima macchina ch’egli aveva montata, ebbene dalla realtà stessa dei fatti sarebbe sgorgata la verità, come polla dal terreno, come fiamma dalla paglia riarsa, sotto il solleone, se la scintilla la penetra.

      Primo, al convegno, giunse quel magro giovanotto, lungo e invasato, del dottor Sigismondi. De Vincenzi lo aveva pregato di non mancare, perché temeva che a un certo punto di un dottore ci sarebbe stato bisogno, con quella medium ammalata di cuore e con le altre donne.

      Arrivò con la sua busta nera sotto il braccio e il profilo più tagliente, più rostrato che mai.

      «Deponga quella busta dei ferri in un angolo… che non gliela vedano subito e lei segga. Crede nello spiritismo, lei?».

      Sigismondi si mostrava disposto anche a crederci. E a ogni modo ferrato nella materia lo era di certo.

      «Verrà un tempo, e forse assai presto, in cui queste cose, che oggi appaiono paradossali, diventeranno banalità ammesse e accettate. Siamo infermi intellettualmente e tardi nell’accogliere l’evoluzione della scienza. La ricerca psichica e lo studio della fenomenologia spiritica appartengono al campo della scienza e non a quello della ciarlataneria».

      Chirico approvava col capo. Gualmo ascoltava con attenzione e vibrava d’ansia. Fu quasi balbettando che disse: «La culla ha un ieri e la tomba un domani». Vampe di rossore gli salirono al volto, quando tutti si voltarono a guardarlo e subito si scusò: «L’ho letto in Victor Hugo…». Gli altri non sorrisero. Non era il momento. Entrava la signora Sorbelli, accompagnata dal dottor Verga e da miss Patt.

      La medium aveva indossato un abito nero, chiuso fino al collo e non portava cappello. Aveva i capelli, ancora tutti nerissimi, divisi in mezzo al cranio e tirati sulle due bande. Il volto grassoccio, così pallido com’era, appariva affinato, spiritualizzato. Gli occhi le brillavano come carbonchi.

      Avanzò con passi automatici e De Vincenzi le porse subito una seggiola, inchinandosi davanti a lei, con l’impressione di rendere omaggio a una dama.

      Miss Patt non aveva perduto per nulla né la baldanza, né quel sottile fascino, carnalmente turbevole, che obbligava gli uomini a guardarla con gli occhi accesi e con le labbra aride.

      Accanto a lei, il dottor Verga assumeva inconsapevolmente l’aspetto di un giovane attore, che si mettesse in posa per un primo piano d’un film di passione. Erano la vamp e il suo partner.

      Ma