«E tu concludi?».
«Io non concludo, mio caro! Ho paura di concludere. Ci sono troppi fatti misteriosi. Troppe domande a cui non si riesce a trovar risposta!».
Sani tacque. Fissava De Vincenzi.
«E tu, allora, inviti tutti quanti a un… ricevimento!».
«Provo a vedere quel che succede a farli riunire al completo attorno a un tavolo!… Chiamo i morti a soccorso, giacché i vivi non vogliono servirmi…».
Il tono era leggero; ma la voce aveva inflessioni stranamente vibranti e profonde. E gli occhi gli brillavano. S’intuiva ch’egli stava attraversando una crisi, che lo sconvolgeva e c’era da ammirare la magnifica padronanza, che aveva di sé e dei suoi nervi.
«Ebbene, qui oggi non c’è più nulla da fare. Vattene a casa… Non ti consiglio di andartene in giro per la città, perché è domenica e la gente in festa è fatta per dar noia…» gli disse Sani.
«Vuoi che continuiamo a parlare, noi due? Ti adopero, per non pensare da solo. Mi sembra che per me sia meno faticoso, così. Perdonami!».
Si alzò, andò a prendere un involto dall’armadio e lo recò sul tavolo.
«Qui dentro ci sono tutti gli oggetti trovati indosso al cadavere del senatore… e tutti quelli che hanno pertinenza col delitto… o che io credo che l’abbiano…».
Aprì l’involto e ne uscì per primi il camice e i ferri. «Questo, per esempio» e sollevò il camice di cotone bianco «non ha appartenuto al professore. E troppo grossolano per essere stato suo. Lo ha affermato Patt… e Patt non s’inganna. E anche i ferri non furono suoi. Lui li aveva di lusso… i bisturi col manico d’onice… Eppure, io mi ostino a considerarli come strettamente legati al delitto… Ecco il foglio sul quale colui, che lasciò ferri e camice sui gradini della chiesa di San Vito al Pasquirolo, ha scritto la sua frase, che potrebbe essere cinica, se non dovesse rispondere alla necessità impellente per lo speditore di disfarsi di essi. Due ipotesi: cinismo e urgenza contingente. Se ne possono trovare altre: inganno, burla, furto… Tutte non risolvono e non spiegano».
Sani lo ascoltava con attenzione, fissando quei quattro ferri lucenti. Indicò il bisturi. «Quelle macchie?». «Non le ho fatte analizzare. Forse, sono di sangue.
Ma, se si fosse trovato che lo sono realmente, di sangue, il mistero si sarebbe fatto più fitto, per me. E io non ho davvero bisogno di complicazioni! Ho preferito rimandare a quando si sarà chiarito il mistero maggiore, la spiegazione del minore mistero di questi ferri e del camice… Non saprei dirtene la ragione, ma ho creduto fin dal principio che non sarebbero stati il camice e i ferri… inviati di proposito alla Questura… a guidarmi verso il colpevole».
Mise da parte, ravvolgendoli nel camice, i ferri, e via via prese gli altri oggetti.
«Il portafogli del morto…».
Ne fece l’inventario.
«Tremila lire… sette biglietti di visita… una carta d’identità… una tessera della Camera Alta… un permanente delle Ferrovie… la fotografia di sua moglie…».
Fissò Sani.
«Non meravigliartene! Tutti coloro che tradiscono la propria moglie ne portano il ritratto nel portafogli… non lo hanno in un medaglione… Non c’è altro, nel portafogli. E nelle altre tasche c’erano: due fazzoletti, un taccuino da ricette, un lapis, una stilografica d’oro, orologio e catena, una piccola rubrica con gli indirizzi dei clienti. L’ho esaminata e non mi ha appreso nulla… Un portasigarette d’oro, con undici sigarette Capstan… Il senatore fumava poco o nulla, perché il tabacco è un antiafrodisiaco… Alle dita, la fede e un anello di brillanti. Niente altro».
De Vincenzi si voltò verso l’armadio.
«Lì, nell’armadio, ho lasciato gli abiti di Norina Santini… Non servono… La borsetta della morta non è stata ritrovata ed era dentro di essa, forse, che si nascondeva qualcosa d’interessante. Assieme agli abiti ho messo anche il ritaglio del giornale col ritratto del senatore, che Norina aveva nel tiretto del suo cassettone… Ecco tutto».
«E poco» mormorò Sani.
«È molto invece quel che non c’è. Il cappello. Quell’accidente di Harrington, con la sua storia del bigatt mi ha confuso la pista! Se avessi saputo dove era andato a finire il cappello, mi sarei avvicinato assai più presto alla soluzione del problema. Ma un’altra cosa non c’è, che appunto con la sua mancanza costituisce un indizio prezioso. Il libro erotico… La Zaffetta — Venetia — 1531».
«Come puoi credere che l’assassino…».
De Vincenzi sorrideva. Sani s’interruppe.
«Continua!».
«Un libro, erotico!… perché rubarlo dopo avere ucciso?».
«E se avessero ucciso per quel libro?».
«Che vuoi dire?».
«Ah! No!» esclamò De Vincenzi. «Spiegartelo non posso! Sento che e così. Che deve essere così. Ma non chiedermene le ragioni, perché le ignoro. E, se le conoscessi, non avrei bisogno di riunire in una sala… a luci spente… le principali persone del dramma!».
Prese gli oggetti sparsi sul tavolo e li ravvolse di nuovo nel giornale. Andò a rimetterli nell’armadio, che chiuse. Poi si volse: «Vedi, che a parlare vengono le idee! A far questo inventario, che abbiamo fatto, io ho rivissuto, una a una, le ore di questi giorni, da martedì a oggi, e ho avuto limpida la visione, dei fatti. Non mi sono ingannato. Non posso essermi ingannato».
Afferrò il cappello e se lo mise in testa.
«Usciamo a prendere un po’ d’aria!…».
Sani si alzò in fretta, per seguirlo. E in quel momento apparve sulla soglia l’alta e sottile persona di miss Patt Drury.
I due uomini ebbero un sobbalzo.
«Buon giorno, commissario» disse la ragazza.
De Vincenzi si era riavuto dalla sorpresa e sorrideva.
«È una gradita visita la sua, miss Drury! Vuol sedere?».
E le porse una seggiola.
Sani sparì nell’altra stanza.
La ragazza sedette. Era seria in volto. Le mascelle leggermente sporgenti apparivano contratte duramente. E gli occhi avevano perduto quella loro luce saettante, che era a volte ironica e a volte carica di disprezzo.
Non parlava.
«È venuta a portarmi notizie del suo fidanzato?».
«Sta meglio. È già in piedi, oggi. Non ha avuto che una leggera influenza…».
«Ne sono lieto».
Aspettava.
A un tratto, facendo uno sforzo, la ragazza esclamò, a voce troppo alta, perché non tradisse la sua eccitazione: «C’è una cosa che Edoardo… che il dottor Verga le ha taciuta, quando le confidò quello che noi due avevamo fatto la notte in cui… uccisero il senatore…».
«Lo so» disse De Vincenzi.
L’altra ebbe un sussulto.
«Come fa a saperlo? Che cosa sa?».
Lentamente, De Vincenzi pronunziò: «Che loro due… mentre stavano ad attendere il professore davanti alla sua casa sul viale videro uscire dal portone Norina… la cameriera…».
Patt balzò in piedi.
«Chi glielo ha detto? Dove si trovava lei?».
«Io?» sorrise De Vincenzi. «Qui a San Fedele, mi trovavo! E in quanto a dirmelo, non me lo ha detto nessuno. Ma che Norina quella notte fosse uscita di casa è dimostrato dal fatto che l’hanno uccisa. Oh! Perché