Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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assurda pretesa che debba essere io a nutrirle col mio sangue, nè più e nè meno della eroica madre di figliuoli anemici o emottoici.

      Non io, è certo, ho creato le zanzare e non io dunque, ho l’obbligo di provvedere al loro sostentamento. Eppure, mentre attendo Franzyska, nella mia camera numero 9, le zanzare – piccole e grandi, leggiadruzze e rapidissime, con le trombe spavaldamente rivolte alla luce delle lampadine abbaglianti e i sottili corpicini nudi come danzatrici – empiono la stanza di clamore e fanno fiorire il mio corpo di piccole bollicine pallide.

      Spengo la luce. Le zanzare cantano la loro disperata canzone nel diffuso chiarore lunare che entra dalle due finestre spalancate. Disteso nella poltrona, io attendo. Tra poco suonerà la mezzanotte. Tra poco Franzyska verrà. Che cos’è questa strana agitazione indefinita, che mi rende impaziente, come un collegiale al suo primo appuntamento amoroso? Impaziente nei sensi, perplesso nel rendermi conto della situazione. Franzyska ha gli occhi verdi, ma questo non è sufficiente perchè la mia speranza d’amore assuma forme così poco consuete in chi s’è trovato mille volte nella sua vita errabonda a stringere fra le braccia donne con pupille di ogni colore. Non è certo questa la causa della trepidazione che constato in me.

      Ma è soltanto trepidazione sensuale la mia? O non più tosto la stranezza degli avvenimenti – certo preordinati da una volontà superiore o comunque più forte della mia – influisce sui miei sensi, esasperandoli in un desiderio carnale, che è poi un desiderio di conoscenza, come tutti gli istinti carnali sono, e che non può scambiarsi con un sentimento di riconoscenza, neppure quando il desiderio sia stato appagato?

      Sdraiato nella poltrona, bagnato dal chiarore lunare, oltrechè dal sudore e dal vapore acqueo di cui l’aria marina di Alessandria è satura, guardo in faccia il mistero di questa notte, con fermezza con chiaroveggenza. Nikola è un pazzo lucido, ed è inoltre un briccone astuto e pericoloso. Ma Franzyska? Una complice? Una vittima? Una succube? Un’ignara? Un’incosciente?

      Semplicemente una donna, mi dico. Con gli occhi verdi e le gambe ben fatte, e quindi tanto più donna.

      O forse, non è soltanto questo. È anche una spia. Ricordo di avere, nella mia vita errabonda, conosciuta un’altra spia, che era donna.. Questo avvenne a Batum, due anni orsono. Allora io facevo il cambusiere su di un cargo genovese, che portava petrolio, fuggiaschi russi, ladri di ogni nazionalità e altra simile merce, da Costantinopoli a Batum e viceversa. Sceso a terra, per sgranchire le gambe e anche per prendere un treno che mi portasse verso l’interno, giacchè ne avevo abbastanza del cargo e della sua merce, mi fermai alla notte in un albergo. Che cos’è un albergo di Batum? È un luogo dove non vi consiglio di sostare, se proprio le circostanze non vi ci obbligano. Comunque, io vi incontrai Ileana. Graziosa, rotondetta, spudorata. Si giacque meco per una modesta mercede, che le avevo offerto con dignità, per quanto con la segreta speranza che ella la rifiutasse come troppo misera. Non la rifiutò, invece, e nel sonno – caduta in uno stato blando di sonnambulismo loquace – mi rivelò come si trovasse a Batum dietro le tracce di un ufficiale bulgaro, che era fuggito con qualche «rilievo» di fortezza e con un disegno completo del nuovo cannone-revolver adottato dall’esercito rumeno.

      Ricordo ora questo fatto, perchè quella rivelazione ebbe per effetto di svegliare il mio interesse erotico per Ileana, fino al punto di indurmi a offrirle di partire con me. Accettò, infatti, e soltanto al terzo giorno, non ricordo più in quale città della Russia carpatica, si decise a lasciarmi, essendosi finalmente convinta, ella mi disse, che io non ero affatto l’ufficiale da lei inseguito.

      — Ma se non conosco una parola di bulgaro, disgraziata!

      — Appunto per questo, avevo creduto! Un ufficiale bulgaro che fugge parlerà tutte le lingue, tranne il bulgaro, se proprio conosce il suo mestiere.

      Ileana, infatti, come dubitarne? conosceva il suo mestiere di spia, e la sua partenza ruppe un legame, che in me si andava facendo sempre più saldo. Mi chiedo ancora se avverrà qualcosa di simile con Franzyska, e soffro acutamente alla prospettiva di una tale eventualità, che potrebbe indurmi a dimenticare i miei più sacri doveri di «agente segreto».

      Le zanzare gridano. La sveglia fosforica, che sempre mi accompagna, segna sul comodino la mezzanotte. Sento pel corridoio lo scorrere ovattato di un passo e alla mia porta un leggero sfregamento che potrebbe essere di un gatto, se non fosse quello delle rosee unghie di Franzyska. Balzo in piedi e accendo la luce. Se non puro come un Galahad, io mi sento appassionato come Lancillotto. Qui è il male! E do la colpa al clima egiziano, che rende più acuta la tragedia del mio temperamento equatoriale.

      Attendo, in mezzo alla camera. La porta si apre, Franzyska appare. È in pigiama di seta bianca, bordato d’oro. Ha una fiamma di capelli cupi sulla fronte e una zazzeretta scintillante attorno alla testa. Richiude la porta dietro di sè, avendo cura di far scorrere il piccolo catenaccio nichelato. Mi sorride. Una zanzara la morde, ed ella lancia un piccolo «auff!» e batte l’aria con le mani. Vede il letto circondato dalla zanzariera e vi si precipita dentro. In ginocchio, adesso, in mezzo al letto, come una statuetta di Copenaghen coperta da un velo, mi parla.

      — Puntuale?

      Sorrido (sento di sorridere fanciullescamente, mostrando i denti bianchi, così come tante volte ho notato che sorridono gli inglesi, quando sono turbati).

      — Oh!... Sì. Grazie.

      — Non avevo ragione di dirvi che ci sono appuntamenti e... appuntamenti?

      — Certo!... Uff!... Ciacc....

      — Che dite?

      — Ho cercato di uccidere una zanzara... e mi sono dato una guanciata....

      — Non mi sembra un buon metodo. Più tosto...

      — Più tosto?

      — Venite anche voi qui... sotto la zanzariera. C’è posto per due.

      Evidentemente, c’è posto per due; ma lei, quando io sono entrato, s’è accovacciata graziosamente sui cuscini e ha lasciato a me tutto il letto. Che farne di tanto spazio? Mi seggo con le gambe incrociate al modo turco, che è poi un modo largamente diffuso anche in Occidente. Franzyska mi guarda: ebbene, ella ha un certo suo sguardo, carico d’ironia e di compatimento e di affetto, che mi turba. Reagisco, cercando di apparirle freddo, deciso, brutale.

      — Possiamo parlarci ora, signora?

      — Ma certo che lo possiamo, mister Domiziani. A proposito, ditemi, vi prego, il vostro petit nom, se volete che questo colloquio assuma un tono confidenziale...

      — John... Voglio dire: Ippolito.

      — John va meglio. Ebbene, John?

      — Ebbene, Franzyska, che commedia è questa?

      — Una antichissima commedia, John, rappresentata ormai milioni e milioni di volte. La commedia è vecchia: soltanto gli attori si rinnovano, sicchè non dipende che da essi renderla più o meno piacevole.

      — Volete dire che stiamo recitando la commedia dell’amore?

      — Il luogo a ogni modo sarebbe adatto.

      — Quale amore?

      — Oh! non pretenderete mica ch’io vi dica di amarvi, John! E neppure crederete che io esclami: «Ah! che cosa mi farete fare!». Oppure che mi dibatta fra le vostre braccia, mentre faccio in modo che la mia veste si slacci...

      — Bene. Le circostanze non consentirebbero un tale contegno. Ma questa non è soltanto la commedia dell’amore, Franzyska. Voi ne recitate un’altra ben più interessante o ad ogni modo di genere diverso.

      — E quale, se vi piace?

      — Andiamo per ordine. Voi siete la moglie di Nikola Cripopoulo?

      — Mi sono lasciata sposare da lui, tre mesi fa, a Marsiglia.

      — Perchè lo avete fatto?

      — Per amore.

      — Non scherzate, Franzyska!

      —