5. Il tranello di... Charles Caisgraim
L’automobile, lasciati i sobborghi di Ramleh, corre sulla via di Abou Kir.
Le dune cominciano a mareggiare, come onde contro gli scogli, biancheggiando e sfuggendo, per riunirsi più lontano. S’infiltrano fra gruppi di case, frastagliano i campi verdi, si delineano contro il mare e contro il cielo, così azzurri tutti e due, che anche guardando verso l’interno non si sa se sia mare la linea dell’orizzonte. Qualche minareto trafora l’azzurro e brilla per il sole in un alone di scintille.
Ho lasciato Alessandria dietro me, arroventata dal sole meridiano, con tante anime quante sono le sue lingue. Il vento di mare, contro cui sono lanciato in corsa, placa l’arsura del mio corpo in traspirazione. Solo nell’auto, con lo chauffeur arabo dinanzi a me, che guida fidando nella protezione di Allah, ripenso agli avvenimenti della notte. Franzyska alle cinque è tornata nella sua camera. E io non ho potuto strapparle una sola parola che servisse a illuminarmi la stranezza della sua situazione di fronte a Nikola, il vero essere di costui e il suo piano. Dacchè sono fermamente convinto che Nikola sta tramando qualche cosa. Non so se in buona fede o meno, Franzyska ha mostrato di ritenere che quella nostra di questa notte sia stata una allucinazione. A parte che io non ho mai sofferto di allucinazioni e che la porta gemeva e si muoveva realmente, rimane questo bottone di filigrana d’argento, che ho con me e che è uguale a quelli del pigiama di Franzyska. Stamane avrei voluto interrogare il concierge e il direttore e i camerieri, per sapere chi abita nelle altre camere dell’albergo – la ricerca sarebbe stata facile e rapida, perchè di questa stagione il Claridge è quasi deserto – ma sono stato svegliato alle 10 da Mohamed, che mi recava una lettera urgente. Era scritta in inglese ed era firmata Charles Caisgraim. Mai sentito nominare, Charles Caisgraim. Ma la lettera era tale da non consentirmi esitazioni. Mi sono vestito, ho ordinato un’auto e mi sono messo in cammino per Rosetto. Accadrà quel che deve accadere. Ho con me la browning e non sarà tanto facile farmi di nuovo provare l’impressione di angoscia, che ho provato stanotte in quell’attimo di attesa, dinanzi alla porta che gemeva e che stava per aprirsi mostrandomi l’ignoto . Il pericolo certo, che si può guardare in faccia, io non lo temo. Soltanto la minaccia di un pericolo oscuro esaspera i miei nervi e mi produce una reale impressione di spasimo. Una tale minaccia librata sul mio capo, mi costringe a pensare. Ecco, questa deve essere la ragione della mia angoscia. Io non posso pensare. Io sono un uomo che non posso pensare. Per questo non ho mai amato, nel senso passionale oscuro tormentoso di questa parola. Perchè pensare? Guardare bisogna, non pensare. Tutto si conosce, guardando. Il bene e il male. I segni delle stelle e quelli di un volto umano. Ma pensare! A pensare i fatti semplici si oscurano; i fili scempi si aggrovigliano; si crede di essere logici e si è sofisti. Non bisogna! La riflessione è come la memoria: il più delle volte deforma l’immagine. Ed ecco che quando ho paura, io sono costretto a pensare e il mio cervello lavora. Questo mi toglie le forze. Il cervello è contrario al muscolo: tanto vero che il muscolo manca nella parte superiore del corpo umano, là dove è più sviluppato il sensorio. Occorre che io proibisca a me stesso d’aver paura.
Per queste ragioni, mi sono messo in tasca la lettera e sono partito. E adesso, così correndo su strada di Abou Kir, rileggo la missiva enigmatica, che ha in sè una minaccia e un allettamento:
«All right! Dunque, siete ad Alessandria. Per quanto tempo? Non dovete affidarvi agli avvenimenti. Occorre sempre dominarli, gli avvenimenti, se non si vuole andare incontro a brutte sorprese. La sabbia del deserto uccide e le balle di cotone soffocano. Se non volete soggiacere a una di queste due fatali evenienze, recatevi domani a Rosetto. Alle 14 qualcuno che vi ama vi attenderà nel piccolo caffè arabo, che è sulla piazza principale. Senza fermarvi, traversate la piazza e recatevi alla spiaggia, là dove le acque del Sacro Nilo si gettano nel mare. Sarete raggiunto. Non mancate! Charles Caisgraim ».
E io non manco. L’ho detto: questa avventura mi alletta. Da due giorni sono ad Alessandria e, nonostante il calore opprimente, che dovrebbe far ristagnare il mio ritmo di vita, mi sento preso come in un turbine. Quante volte – non molte, a vero dire, perchè io leggo poco – ho letto nei romanzi: «ed egli fu preso nel turbine della vita»? Quale felicità, pensavo, esser presi nel turbine della vita! Certo è riservata a pochi, una tale felicità. E vedevo quei pochi, materialmente sollevati in aria, girare vorticosamente in un mulinello diabolico, i capelli ritti sulla testa, le gambe tese, le mani in aria. Girare, girare. Li vedevo tutti in frak, costoro, e in mezzo al vortice una donna nuda, sfrontata e sorridente: la Vita. Ho anche letto, non so più dove, che oggi quel che manca agli uomini è l’entusiasmo? Ecco! A me non sarebbe mancato l’entusiasmo, pensavo. Ma adesso? Eccomi nel vortice. E la donna – nuda – c’è veramente: Franzyska. Nuda, anche se indossa il pigiama bianco e oro, coi bottoni di filigrana. La pietra gialla: il colore degli occhi dei gatti, nelle novelle di Edgar Poë. Lo chauffeur arabo, che si rimette ad Allah. Insh’ Allah! Se Allah vuole! Certo che vorrà: o perchè mai avrebbe lasciato che questo biglietto mi pervenisse, se non volesse? Eppure, io non ho mai conosciuto Charles Caisgraim.
L’automobile corre sulla strada chiusa tra il mare e il lago. Lungo la striscia della spiaggia s’aprono grandi pozze d’acqua, sedimenti di sale argenteo, che fanno splendere sul rosso fulvo delle dune bagliori di ghiacciaio e hanno venature di sangue, iridi di azzurro, cupe macchie violacee.
Il lago Mariottis è interminabile; sull’orizzonte non ne vedo la fine. La terra delle sponde, resa gloriosamente ferace per le infiltrazioni, ribolle in germinazioni verdi di grano, di cotone, di erba. Sullo specchio melmoso delle acque, le barche a vela triangolare, rialzate argutamente a poppa e a prua, al modo delle autentiche navi egizie, si pavoneggiano di verde squillante e di rosso cremisino. I pescatori camminano sullo specchio del lago, con l’acqua appena alla caviglia, e sembra che rinnovino il miracolo dei santi cristiani, tanto sono lontani dalla riva.
Un gruppo di uomini e di cammelli sull’acqua. Un ciuffo di palme sopra una duna. Un moro nudo che si tuffa nel lago. Ah! sono in Oriente. La mia è un’avventura orientale. Ad Alessandria di questa realtà non potevo accorgermi, chè è un ammasso di case bianche, una distesa di facciate tutte eguali, un tappeto di terrazze livellate. Ma qui trovo il colore.
Che cos’è questo? Un parco cintato, un soldato scozzese in gonnellino a quadratoni e cosce nude, una distesa di hangars, di cottages, di macchine e di ali. Oriente? Certo! Inghilterra! Abou Kir. Tocco il freddo della mia browning nella tasca e mi sento al sicuro, in questa automobile, come se fossi dentro una di quelle tanks, che son ferme laggiù verso il mare. Il signor Caisgraim può venire: mi troverà! Anzi sono io che vado da lui.
Abou Kir è passato. Il calore è avvampante. Un villaggio di pescatori presso il lago: selva di alberi di barca, volo a stormo di vele rettangolari, strisce sulle carene di verde ramarro e di rosso sangue.
Ancora un’ora di corsa e poi Rosetto. Il mio arabo non ha detto una parola fin qui. Quando siamo davanti a Rosetto, ferma la macchina e mi indica: – Rosetto!
La cittadina è sotto di me, bassa e rosata, giuoco di cubi e di rettangoli, schiacciata nella sabbia, tra il mare e il fiume. Nel porto, le barche agitano le punte sottili dei loro alberi altissimi. Quattro minareti bianchi e due cupole delle antiche moschee, qualche ciuffo di palma, qualche cammello gibboso, alcuni mori del Sudan e una frotta di bimbi seminudi che circonda l’automobile, subito messa in fuga dalle grida stridule di una specie di policeman in camicia da notte bianca e berretto rosso col numero d’ottone. Bene: questo è Rosetto. Andiamo avanti. Adesso finalmente saprò perchè mi hanno fatto venire.
L’auto passa per due o tre strade strette, fra le graticciate delle musharahye, sbuca nella piazza. Ecco il caffeuccio; vedo sulla porta un omaccione ventruto che si arriccia i baffi neri, una donna velata attraversa il lago rovente del sole sui ciottoli bianchi; tutto attorno a me è silenzio in quest’ora canicolare.
Lascio l’automobile al limite della borgata, nell’ombra dell’ultima casa, e m’avventuro verso la spiaggia. Ecco le acque del Nilo; la spiaggia fa un angolo acuto. Strana idea che è stata di dare un appuntamento a un cristiano proprio in quell’angolo! Il sole batte senza misericordia mare e sabbia. La sabbia sfavilla, l’acqua sembra ribollire, sotto la calura,