Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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      Uno stanco vento di mare, che m’investe a tratti coi suoi buffi salsedinosi, impedisce appena alla pelle del mio viso di accartocciarsi e sfaldarsi, abbrustolita da questo fuoco d’inferno, che divampa attorno a me come un incendio smisurato.

      La lettera di Caisgraim era dunque soltanto un tranello mortale, per sopprimermi senza bisogno di sicari? Contro quale forza sto io lottando, che conosce di simili colpi sinistri e che sa far calcolo, per la riuscita di essi, sulla mia impulsività cieca e avventata e su questo mio desiderio di avventura, che non mi fa misurare pericoli e distanze e che mi induce all’azione prima ancora di riflettere?

      Ma non è qui, dinanzi al mare e al fiume, sotto questo ardente sole africano, che io possa vagliare le manchevolezze del mio spirito. Non v’è alcuno ad aspettarmi qui, e non verrà alcuno. Nè Caisgraim, nè altri! Insistere nell’attesa, sarebbe follia. Occorre tornare ad Alessandria il più presto possibile e agire immediatamente.

      Ritorno all’auto. Schiantato dal calore, il mio arabo dorme rovesciato sul sedile, la bocca aperta e mugolante, gli occhi bovini gonfi, le mani aperte sul ventre che ansima. Lo chiamo, lo scuoto, gli accendo nelle orecchie l’urlo rauco e arrotato del clakson. Con un sussulto, si solleva, protendendo le mani avanti, come per difendersi da un pericolo.

      — Presto, Alì, presto! Torniamo ad Alessandria.

      — Insh’ Allah!

      Al diavolo il tuo Allah! Alla fin dei conti il voler dare ad Allah la colpa di tutto quello che accade, è un’ingiustizia che mi esaspera.

      L’automobile corre di nuovo fra sponde d’acqua. Vorrei che potesse volare. Se il mio nemico – poichè non vi ha dubbio che un nemico almeno io l’ho contro di me, da che sono in Egitto – ha voluto allontanarmi da Alessandria proprio stamane, segno è che qualcosa avviene laggiù nella mia assenza. Qualcosa di importante, di definitivo; qualcosa che io avrei potuto evitare, se non avessi abboccato come il più sciocco dei merluzzi all’amo di quella ridicola lettera firmata col più ridicolo dei nomi: Charles Caisgraim. Io mi domando come ho potuto credere per un solo istante che un certo Charles Caisgraim esistesse e si occupasse di me, fino al punto di darmi un appuntamento alle due del pomeriggio sulla spiaggia arroventata di Rosetto!

      — Presto. Alì, presto! Fracassati il collo, ma fai presto!

      — Malesh! Malesh!

      — Malesh, un corno, Alì! Ti dico di correre.

      Alì scuote la testa e conduce gravemente la macchina, reggendo il volante con la forza massiccia delle sue mani villose.

      Rivedo le vele verdi e rosse delle barche immobili sul lago, i gonnellini a scacchi degli scozzesi di Abou Kir, le dune di sabbia e i campi di grano. Finalmente ecco Santo Stefano e l’auto imbocca l’interminabile via di Ramleh. Sono le cinque quasi, il sole è sempre alto, il caldo atroce.

      Mi avveggo ora, mentre sto per arrivare all’albergo, di non aver pensato neppure un istante che in tutta questa faccenda potesse entrare Franzyska. Eppure!... Eppure, no! Non voglio pensarlo. Non voglio conoscere di lei che quanto il suo corpo mi ha rivelato stanotte nella frenesia dell’amore e negli abbandoni languidi. Sento ancora lo sguardo dei suoi occhi verdi fissarmi stranamente, chinato il suo volto sul mio, come a raccogliere gli ultimi bagliori del mio desiderio soddisfatto. E ricordo di avere scorto nel profondo di quegli occhi una minaccia e una preghiera. E anche mi dico che lei, proprio lei, aveva fatto scorrere, entrando nella mia camera, il piccolo catenaccio nichelato: perchè lo avrebbe fatto, se sapeva che qualcuno sarebbe venuto a tentare la porta? Sì, non posso essermi ingannato, – in certi momenti tutti i sensi si acuiscono, – nel suo sguardo io ho letto una preghiera....

      — Nessuno è venuto a cercarmi?

      — Personne, monsieur.

      Mi lancio per la scala, passando di corsa innanzi al sorriso ebete dei due mori che si ostinano a indicarmi l’ascensore; faccio gli scalini a tre per volta; rovescio quasi Mohamed fermo nel corridoio a grattarsi come di consueto la testa rasa; entro nella camera.

      Ho sentito che qui dentro avrei trovato qualcosa di nuovo e di terribile, qualcosa che non sarebbe avvenuto, se io non mi fossi allontanato. Infatti!

      Il corpo di Franzyska, ancora in pigiama come stanotte, è rovesciato di traverso sul letto, il capo penzola quasi sul tappeto. Lo sollevo. Non c’è sangue, non vedo tracce di ferite o di percosse. Franzyska respira regolarmente. Deve essere soltanto svenuta, forse. La chiamo: – Franzyska! Franzyska!

      Lentamente, a fatica, apre gli occhi, mi guarda. Ha uno sguardo smarrito, dolcissimo, disfatto.

      — Franzyska! Sono io! John! Che cosa è mai accaduto, mia piccola Franzyska?

      Ecco: riprende conoscenza, mi vede, il suo sguardo si anima, un bagliore le accende le pupille, il suo corpo ha uno scatto nervoso così violento e improvviso che quasi mi sfugge dalle mani:

      — John! Là... là... – e la mano indica l’angolo della stanza, presso il tavolo.

      — Che cosa c’è là, Franzyska?

      — La valigia... la valigia tua!....

      E ricade svenuta. La valigia mia? Guardo. La piccola valigia dove avevo chiuso i documenti datimi a Londra prima di partire per l’Egitto è sparita!

      R

      Adesso, Franzyska è seduta sul letto e sta per parlarmi.

      È notte, oramai. La stanza è invasa dal chiarore lunare, come ieri notte che Franzyska entrò qui per la prima volta. Le zanzare ronzano, come ieri notte, ma nè Franzyska nè io ci accorgiamo delle loro punture. La zanzariera è aperta, sebbene Franzyska sia seduta sul letto. Io seggo nella poltrona, di fronte a lei. Da molto tempo Franzyska è rinvenuta dallo svenimento; ma lo svenimento è stato lungo e l’ha prostrata. Ho dovuto attendere che ella aprisse gli occhi, si muovesse, tornasse in vita, senza poter far nulla per portarle soccorso, dacchè mi sarebbe stato impossibile far chiamare un dottore. Ho subito compreso, dopo la scoperta del furto che, comunque fossero andate le cose, la presenza di Franzyska svenuta nella mia camera, avrebbe fatto scoppiare uno scandalo, che io debbo a ogni costo evitare, se voglio avere qualche speranza di ricuperare i documenti. Così, le ho spruzzato il volto di acqua di Colonia, le ho fatto annusare i sali, e ho atteso. L’attesa è stata lunga e non priva di angoscia. Fissando il volto immobile della giovane donna, mi sono domandato quali sentimenti si dibattessero in me. Poichè era evidente che io avevo piena coscienza del danno irreparabile che sarebbe venuto alla mia carriera, alla mia situazione, a me stesso, dall’essermi lasciato rubare così scioccamente carte di importanza eccezionale e in circostanze tutt’altro che favorevoli per la mia reputazione di uomo e di agente segreto di una Grande Potenza, mi chiedevo come mai questo fatto mi turbasse così poco e a ogni modo così sproporzionatamente meno di quanto mi avrebbe certamente turbato, se io non avessi trovata Franzyska svenuta sul mio letto. Una sola risposta potevo darmi: la presenza di quella donna immota accanto a me era bastata a vincere ogni altro turbamento, che non fosse quello dei miei sensi e del mio cuore. Ho detto cuore? È un modo di dire. Certo è che ho provato per quel corpo senza vita, guardando il pallido viso incorniciato dalla zazzeretta luminosa, il mento piccino e sottile, il collo bianco, i due segni del petto netti sotto la seta aderente del pigiama, una tenerezza tiepida e buona, un bisogno più forte di me stesso e delle mie consuetudini, di stringerlo dolcemente e di proteggerlo come se fosse cosa mia. È stata una sensazione nuova. Mai provata, le molte altre volte che avevo tenuta una donna nel mio letto, alla quale pure avessi dichiarato: «Ti amo».

      Amavo io, dunque, Franzyska?

      La reazione è venuta subito in me, improvvisa violenta, non appena questa seconda domanda si è precisata nel mio cervello. Ah no! non amavo Franzyska e non la avrei amata mai. È bastato che la ipotesi di un tale amore prendesse corpo, perchè io vedessi dinanzi a me il ghigno di Nikola Cripopoulo, i suoi piccoli occhi maligni e fuggevoli, accesi a tratti da lampi di fanatismo e di follia, l’oro dei suoi denti guasti.