Me lo ha detto… Ella non ignora che Crestansen era venuto a trovarmi… qui… ieri mattina…
— Ebbene? Vada avanti! A Detroit…?
— Giobbe Tuama a Detroit era stato arrestato per ricettazione. Ma lui era in buona fede… Aveva acquistato un piccolo lotto di diamanti, senza supporre che essi fossero di provenienza furtiva…
— Questo è tutto?
— Si può supporre…
— Che cosa?…
Cominciava ad avere i nervi stanchi. E la sua sensibilità gli diceva che il Pastore aveva uno scopo e tentava di fuorviarlo.
— Si può supporre che Crestansen non fosse estraneo a questa storia… Tuama non mi fece il nome di lui, tuttavia… Tenne a dirmi, invece, che fu liberato prima che la pena fosse terminata… Perché era stata riconosciuta la sua innocenza…
— Non le disse altro?
Il Pastore ebbe un leggerissimo sorriso. Accennò col capo lentamente, per dire di sì, che gli aveva detto qualch’altra cosa. Fece una pausa. Preparava il suo effetto.
— Aggiunse che un altro aveva preso il suo posto a Sing-Sing… Il vero colpevole…
— Ah!
De Vincenzi si alzò. Dunque, tutta la faccenda poteva riassumersi così: Giobbe Tuama, ovvero Jeremiah Shanahan, s’era trovato coinvolto, assieme a Giorgio Crestansen, in una losca storia di diamanti rubati e scoperti dalla Polizia in casa sua. Ma egli era innocente e il colpevole era stato finalmente arrestato e imprigionato, mentre a lui veniva ridata la libertà.
La conclusione che quella storia, così narrata, voleva insinuare era questa: il vero colpevole, credendo d’esser stato scoperto a causa e forse su denuncia di Tuama e di Crestansen, una volta uscito di prigione, aveva raggiunto i due e li aveva uccisi per vendicarsi.
Era questo che gli voleva far credere il Pastore?
Certo, la storia, se pur vera, doveva esser molto più complicata e c’erano i precedenti di Pretoria… E c’era Dorotea Winckers Shanahan con tutto il suo implacabile odio… E Lolly Down, che della vecchia era, forse, figlia…
De Vincenzi si mosse per la camera. Il Pastore si alzò e rimase ritto, immobile, sotto il Cristo. Sembrava attendere che il commissario si congedasse. Il colloquio per lui era terminato.
— Le ho detto tutto quanto so, commissario…
— E lei crede…?
— Io non credo nulla! Può darsi benissimo che tutto questo non abbia alcun nesso coi fatti tragici di oggi…
— Un senso, ad ogni modo, lo ha!
— Che cosa vuol dire?
— Che adesso anche l’ombra di Sing-Sing si profila sul dramma…
Il Pastore alzò le spalle.
— Io non faccio lavorar mai la fantasia…
— Non ha forse detto proprio lei che il sangue dell’uomo ricadrà sull’uomo? Perché lo ha detto?
— Oh! Due omicidi di questa sorta non vengono commessi se non per vendetta!
— Chi di spada ferisce… vero!
De Vincenzi era sarcastico.
L’altro gli rispose con voce solenne:
— Perisce sempre di spada. È fatale!
Il commissario trasalì e lo fissò attentamente. Sul volto di lui, così pieno di ombre, si scorgeva una determinazione freddamente crudele. Gli occhi gli lucevano. Ma egli abbassò le palpebre e li spense. Si mise a toccar qualche foglio sul tavolo.
Di colpo un rumore vicino, netto e preciso, venne dalla porta nera della Chiesa. Qualcuno sembrava grattasse contro il legno.
I due uomini sussultarono.
Questa volta il Pastore fu rapidissimo a lanciarsi. La sua prima impressione aveva rivelato la sorpresa e quasi la paura. Quel rumore per lui era certamente inaspettato e incomprensibile.
Ma quando ebbe raggiunto l’uscio, De Vincenzi lo vide fermarsi. Si era voltato e sorrideva.
— Anche i miei nervi devono essere un po’ scossi! Avevo dimenticato che in casa c’è un piccolo cane… Aggrottò le ciglia e contrasse le mascelle.
— Tuttavia, non dovevano farlo penetrare nella Chiesa!
Aprì la porta e pronunciò con voce irosa:
— Avanti!… Chi ti ha cacciato lì dentro? Via!
Il piccolo mops fu sbalzato da un calcio attraverso tutta la camera e il Pastore lo inseguì fino all’altro uscio, cacciandolo nel corridoio. Il cane, dopo il primo grido acuto, si allontanava adesso guaendo lamentosamente.
— Virginia!… Matteo!… Prendete il cane!… Come avete fatto a farlo entrare in Chiesa?… Faremo i conti dopo!…
Chiuse la porta e tornò verso De Vincenzi. Era ancora fremente.
— Non ci si può mai fidare di nessuno!
— Quel cane è suo?
— Sì. È il dono che ha voluto farmi un nostro amico… Io amo molto i cani…
Non lo si sarebbe detto a giudicare dal calcio che aveva dato alla bestiola!… E quel cane, De Vincenzi lo aveva perfettamente riconosciuto: era Abramo Lincoln.
R
Capitolo X
Il terzo non riesce
I minuti che seguirono all’apparizione dell’innocente Abramo Lincoln furono per De Vincenzi decisivi. Egli sentì di trovarsi dinanzi al nodo del problema. Gli elementi di esso balzavano fuori all’improvviso e convergevano apparentemente tutti in una sola direzione. Ma occorreva non lasciarsi prendere dall’inganno delle apparenze.
I guaiti lamentosi del mops erano cessati. Il cane doveva esser stato accolto dalla vecchia Virginia o dal non ancora conosciuto Matteo e trasportato al primo piano della casa.
Chi altro si trovava lassù?
Certo, Abramo Lincoln, non era venuto solo da Foro Bonaparte a Piazza Mentana! E non era men certo che non poteva esser sua l’ombra che il commissario aveva veduta proiettarsi per un attimo contro la parete della Chiesa.
De Vincenzi si ritrovò sulla piazza, di fronte alla facciata buia. Era, oramai, sera. Il caffeuccio in cui era entrato al pomeriggio a far la posta a Dorotea Winckers Shanahan aveva acceso le sue lampade. Era quella l’unica macchia luminosa aperta sulla nera fascia circolare della piazza, al centro della quale l’oscurità si faceva fonda sotto i pochi alberi dello spiazzo.
Si allontanò in fretta. Attendere in agguato gli sembrò questa volta assolutamente inutile. A che scopo? Avrebbe veduto, forse, uscire dalla casa del Pastore la vecchia Shanahan con la sua borsa nera e il ridicolo cappellino di lustrini o miss Lolly dai colori radiosi. Che una delle due donne o entrambe si trovassero lì dentro era per lui oramai una certezza e averne conferma non lo avrebbe aiutato a penetrare il mistero. Quali erano i rapporti che correvano tra la vedova del fu Giobbe Tuama e il Pastore? Tra costui e miss Lolly Down? Non lo avrebbe evidentemente appreso, quando le avesse vedute uscire e avesse potuto seguirle.
In via Torino, salì in un tassi e diede l’indirizzo di Foro Bonaparte.
Trovò la portinaia e la nipote intente a preparare la cena nella cucina attigua alla stanza della portineria, che era un civettuolo tinello dai mobili moderni. La tavola aveva la tovaglia candida e quattro coperti.
La ragazza si affacciò per la prima e si volse a chiamar la zia, con una certa ansietà.
— C’è