Penserà lui a metter tutto nelle casse… Domattina le porteremo via col carretto…
Come a un pensiero improvviso, si cacciò la mano in tasca e ne trasse il sacchetto col denaro. Lo depose sul tavolo.
— Bertrando terrà lui quel che potrà incassare fino a mezzanotte… – fece una smorfia. – Nessuno compera più Bibbie, da quando sotto il banco c’è stato un morto…
De Vincenzi lo fissava.
L’uomo era depresso. Lampi di terrore passavano nelle sue pupille troppo chiare, rotonde, enormi. E aveva sguardi supplici, che apparivano stranamente patetici in quel suo volto grosso, duro, coriaceo come quello d’un pugilatore.
Il commissario gli sedette di fronte.
— Ebbene, O’Garrich? Che cosa eravate venuto a fare dal Pastore?
L’irlandese si passò la lingua tra le labbra aride. Lo sguardo gli si fece ancor più supplice.
— Avevo bisogno di confidarmi a lui…
— Naturalmente!
Seguì un silenzio. Dal basso non veniva alcun rumore, neppure una voce. La casa era immota. In Chiesa le otto lampade dovevano esser rimaste accese. Fu perché ebbe questo ricordo, che De Vincenzi pensò che quella sera era domenica e che alle nove ci doveva esser predica? Erano le undici circa e nessuno s’era presentato per assistere alla funzione. Forse, avevan trovato la gran porta chiusa, la Chiesa scura e i fedeli se ne erano andati. Possibile, però, che neppur uno di essi avesse voluto suonare alla porticina, per chieder notizie e spiegazioni?
Forse, il Pastore aveva provveduto ad avvertire i fedeli fin dal pomeriggio. Ma perché lo aveva fatto?
La morte di Giobbe Tuama non avrebbe giustificato la sospensione del rito; ma anzi il Pastore avrebbe avuto ragione di parlare del defunto, di pregare per l’anima sua.
— Non credete, O’Garrich, che potreste confidarvi con me, piuttosto che col Pastore, il quale non può ascoltarvi?
— Perché non lo può? Io ho il tempo di attendere…
— Qualcuno ha attentato alla vita del Pastore.
— No!…
Il colosso si mise a tremare. Una paura atroce lo aveva invaso.
— No!… È impossibile!… Perché?
— È questo appunto che vorrei sapere: perché?
— Mi racconti tutto… È stato ferito gravemente?
Fu facendo uno sforzo su se stesso, che riuscì a chiedere ancora:
— Come hanno tentato di ucciderlo?
— Oh! nel modo più semplice e nel più silenzioso. Con una bastonata sulla testa…
— Ma perché?… Lui!…
C’era uno smarrimento senza limiti nel suo accento. Una specie di singhiozzo gli spezzò la parola.
— Potreste aiutarmi voi, O’Garrich, a trovare il perché… Vediamo un po’!… Riprendiamo la storia da principio. Voi mi avete detto poco fa di esservi trovato con Jeremiah Shanahan a Pretoria nel 1902 o nel 3…
De Vincenzi parlava lentamente, fissando il colosso negli occhi. Beniamino non evitava lo sguardo. Ma sembrava paralizzato. Il suo smarrimento si era fatto pietoso.
— Jeremiah era cassiere alla De Beers and Brothers Company... e voi eravate impiegato con lui… Società per l’estrazione dei diamanti… cento milioni di sterline di capitale… Esatto, tutto ciò?
— Esatto…
La risposta fu un soffio.
— Ebbene? Che cosa avvenne?… Perché Giobbe Tuama fuggì?… Voi avete detto: non era lui che cercavano… Dunque?
Beniamino O’Garrich inghiottì la saliva e fece di sì col capo. Poi parlò, mettendosi le mani aperte sulle ginocchia e avanzando il corpo verso il commissario.
— Non era questa la storia che volevo raccontare al Pastore stasera…
— Lo so. Voi volevate parlargli ancora della prigionia di Jeremiah Shanahan a Sing-Sing… dei diamanti ricettati… dell’innocenza del vostro amico.
— Come lo sapete?
— Me lo ha detto il Pastore, naturalmente… Chi prese il posto di Jeremiah a Sing-Sing, quando l’innocenza del condannato fu dimostrata?
— Giorgio Crestansen.
De Vincenzi tacque per qualche istante. Il nome pronunciato da O’Garrich non recava alcuna luce sui delitti. Anche Crestansen era stato ucciso – e qualche ora prima di Giobbe Tuama. Supporre, come forse aveva voluto fare il Pastore, che si trattasse di una vendetta compiuta da un complice di Jeremiah danneggiato dalle rivelazioni fatte in carcere da costui non era più possibile adesso, dato appunto che il danneggiato era stato Crestansen.
— E voi, Beniamino O’Garrich?
L’uomo deglutì di nuovo, con sforzo.
— Sì…
— Volete raccontarmi tutta la storia?
— Sì…
La porta della cucina si aprì e apparve Sani.
— Il Pastore è rinvenuto… Il medico dice che si tratta di ferita di poco conto…
— Sta bene, Sani. Rimani giù e non abbandonare il Pastore neppur un minuto… Io scenderò quando avrò finito…
La porta si richiuse.
— Parlate, amico mio… Anche un reato… o un delitto, commesso laggiù e in quegli anni lontani, non può oramai avere più alcuna conseguenza per voi.
La storia che raccontò l’irlandese, se illuminava le figure dei protagonisti di essa e se spiegava molte delle loro azioni posteriori, non dava la chiave del mistero attuale. A credere a Beniamino O’Garrich – il quale certo in quel momento non mentiva – un uomo c’era, che avrebbe potuto aver ragione e volontà di vendicarsi, ma quest’uomo era morto. Oh! allora? E perché il colosso tremava dal terrore? E perché quel susseguirsi atroce di assassinii?
La cucina bianca sembrava respirasse con l’ansimo di Beniamino, mentre questi narrava a frasi tronche con quella sua voce rauca e profonda, che a tratti si lacerava, sembrava sfilacciata, si faceva comica e pietosa, per tacer poi di colpo. E allora il commissario doveva interrogare, incitare, scuoterlo.
— Fu a Pretoria… Jeremiah Shanahan era uno dei cassieri della Società… aveva molto denaro in consegna… ma godeva la fiducia dei direttori e la meritava… Non ha rubato denaro… Non è vero che sia stato in carcere per aver rubato.
— E voi?
— Ero suo amico… C’eravamo legati… Il mio anche era un impiego di fiducia. Le cassette coi diamanti greggi venivano consegnate a me, per recarle dalle miniere alla sede di Pretoria… Io ero un po’ un collega di Jeremiah… Viaggiavo nell’interno, come le ho detto, e molto spesso non pernottavo in città, ma a Pretoria abitavo con Shanahan…
— Lui aveva moglie, allora?
— No. Eravamo scapoli entrambi.
— E voi lo siete sempre rimasto, scapolo?
— Sì.
Tacque.
— Ebbene?
— Fu il destino!… Io mi lasciai traviare… Un giorno, colui che mi accompagnava, mi indusse a fingere un’aggressione… Tornammo senza la cassetta… Io avevo una pallottola di weterly in un braccio… Crestansen una ferita di striscio alla nuca. Leggera, però… Non gli rimase neppure la cicatrice… Avevo avuto paura di fargli male…
Dunque,