Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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il volto. Aveva gli occhi chiusi. Respirava, però, quasi regolarmente. Un colpo violento, doveva esser stato, che gli aveva tolto i sensi, abbattendolo.

      Un colpo di che? Di bastone, molto probabilmente, e vibrato con discreta forza. Colui che lo aveva colpito doveva trovarglisi di fronte.

      Il Pastore non poteva non averlo veduto.

      De Vincenzi si guardò attorno.

      — Aiutatemi a trasportarlo…

      Fu sempre la vecchia, che si prestò ad afferrare il Pastore pei piedi, così come era stata lei a rispondere alle domande del commissario.

      Lo portarono nella sala e lo misero sul divano nero.

      — Fategli qualche bagnolo alla fronte. Adesso, verrà il medico.

      E lui tornò nella Chiesa.

      Vide la porticina nell’angolo estremo, dietro il pulpito. Era aperta. Dava sopra un corridoio buio. Tornò indietro. Sapeva già che quel corridoio terminava con la porta, che dava sulla strada. E doveva essere aperta anche quella.

      Guardò attentamente le pareti, il pulpito, la colonna. Sullo spigolo della colonna, a più di un metro da terra, scorse una macchiolina di sangue. Non trovò altro. E tornò presso il divano, a guardare Virginia, che premeva con delicatezza un tovagliolo inzuppato d’acqua e aceto sulla fronte del Pastore e glielo passava leggermente sul volto, per tergerne il sangue.

      Il nano stava presso alla porta. S’era cacciate le dita della mano sinistra nella barba rossigna e cresputa e guardava attorno a sé, con l’unico occhio aperto, perplesso.

      R

      Ombre nella nebbia

      Aveva visitato la casa e non aveva trovato nulla. Pochi ambienti, mobili scuri e pesanti; la camera da letto del Pastore era quasi nuda e De Vincenzi ebbe subito la visione sovrapposta della cella claustrale di Giobbe Tuama. Soltanto, qui c’era un grande letto massiccio, di ebano funerario con molti intagli. Ma poi null’altro, se non due piccoli tavoli e qualche seggiola. E un Cristo. L’immagine di Colui che aveva salito il Golgota, la si trovava dovunque in quella casa.

      Virginia e Matteo dormivano in due camerette del solaio.

      In cucina, che era la stanza più grande e chiara, sul vasto tavolo di centro erano un vassoio con due tazze, la teiera e il bricco dell’acqua. Qualcuno aveva bevuto in quelle tazze. Chi, se non forse miss Down e Dorotea Winckers?

      Quando lui era uscito dal Presbiterio, circa un’ora prima, le due donne dovevano trovarvisi, come l’irruzione di Abramo Lincoln aveva rivelato.

      Il commissario scese lentamente in basso, per la scaletta illuminata dalla luce verde.

      Chi era stato a colpire il Pastore?

      Qualcuno, certo, ch’era entrato dalla porticina di Via Sant’Orsola. E questo qualcuno non poteva essere che l’assassino di Giorgio Crestansen e di Giobbe Tuama. Il misterioso uomo dagli occhiali di tartaruga, dalla bionda barba fluente e dal cappello di paglia col nastro azzurro e bianco. L’incognito X, che aveva un conto antico da regolare coi due «americani», un conto che, forse, aveva la sua partita aperta a Pretoria, nell’Africa del Sud… o, forse, a Detroit, nel Michigan… E Crestansen voleva trovare un tale Olivier O’Brien… Tutti irlandesi sparsi dal destino pel vasto mondo e andati a finire in Africa e poi negli Stati Uniti. E Tuama era stato nelle carceri di Sing-Sing, per un reato – ricettazione di diamanti – che non aveva commesso.

      Ma c’era anche il gigantesco Beniamino O’Garrich, che entrava nel giuoco… Beniamino, il quale molto probabilmente conosceva tutta la storia meglio di ogni altro e che aveva un terrore folle d’essere assassinato alla sua volta.

      Ma il Pastore? Che cosa c’entrava il Pastore?

      Troppo giovane per aver partecipato alle vicende tenebrose del Sud Africa e d’America… De Vincenzi non ne conosceva neppure il nome…

      Poi le due donne. Dorotea Winckers e Lolly Down avevano sentito il bisogno di correre alla Chiesa Evangelica subito dopo la visita del commissario… E avevano portato con loro il piccolo cane, per far credere che uscissero come il solito, per la passeggiata. Lolly era realmente la figlia della vedova di Giobbe Tuama? Figlia del sordido venditore di Bibbie era poco probabile che fosse…

      Uno era il fulcro di quella storia: l’odio di Dorotea per suo marito. Da che cosa traeva origine, quell’odio?

      De Vincenzi s’era fermato nel corridoio a riflettere, prima di varcare di nuovo la porta nera, dietro cui giaceva il Pastore ferito alla testa, ancora svenuto forse.

      Sani doveva esser tornato e adesso sarebbe giunto il dottore. La vecchia Virginia continuava a fare gli impacchi di acqua fredda. Il nano si teneva di guardia alla porta…

      Che cosa avrebbe detto il Pastore, quando fosse tornato in sé?

      De Vincenzi ebbe un sorriso: era pronto a scommettere che non aveva riconosciuto il suo aggressore.

      Ah! che storia triste, orribile, grottesca!

      Non c’era da cavarne le gambe… Per lui era cominciata alla mattina e ancora non aveva né un sospetto fondato, né una teoria che reggesse. Non voleva formarsela, una teoria, del resto…

      Il campanello squillò dietro le sue spalle, al sommo delle scale, e nel silenzio di quel corridoio male illuminato il suono elettrico sembrò ai suoi nervi vibranti il guizzo traforante d’un sottile acciaio arroventato.

      Matteo comparve sulla porta nera, che si era spalancata.

      De Vincenzi tirava già i chiavistelli: aveva raggiunto l’uscio d’ingresso quasi di balzo.

      Contro il chiarore lunare, che inondava la piazza, nel riquadro della porta, si stagliò una figura gigantesca, con un enorme cappello spiovente sul capo.

      — Siete voi, Beniamino O’Garrich?

      Il colosso arretrò d’un passo, senza rispondere.

      — Entrate!… Vi attendevamo… – fece il commissario con voce dolce.

      — Mi attendevate?! – ripeté Beniamino.

      — Voglio dire che la vostra presenza può esserci molto utile… Entrate!

      Questa volta l’invito suonò duro e reciso come un comando.

      Beniamino O’Garrich varcò la soglia e avanzò nel corridoio.

      — Il Pastore? – chiese subito e si fermò.

      De Vincenzi chiuse l’uscio e lo raggiunse.

      Il nano si teneva sempre fermo davanti alla porta spalancata.

      — Il Pastore in questo momento non può occuparsi di voi, O’Garrich… Venivate a trovar lui?…

      — Naturalmente!… Ma se non può darmi ascolto, tanto vale che me ne vada.

      — No!

      E lo spinse verso le scale.

      — Salite. Sono pronto a darvi ascolto io.

      L’irlandese salì lentamente i gradini, col suo passo pesante ed era giunto sul pianerottolo, quando di nuovo il campanello trillò. Si sentì l’ansimo sordo di un motore fuori della porta d’ingresso.

      — Aprite – disse De Vincenzi a Matteo. – Deve essere il dottore.

      Lo sciancato arrancò all’uscio e sulla soglia della porta nera apparve il volto di Sani.

      De Vincenzi saliva le scale dietro a Beniamino.

      — Sani, quando il dottore avrà finito, chiamami… Mi trovo nella cucina… al primo piano.

      — Sta bene – rispose il vice commissario, andando incontro al dottore, che entrava.