che fugga. Mi capite?»
Cruni si era svegliato completamente e fece segno di sì con la testa.
«Tornerò domattina. Probabilmente, verranno a prendere il cadavere. Se venisse il giudice, ditegli che ho lasciato questa casa alle quattro e che tornerò alle nove.»
Ritornò nella sala e diede uno sguardo ad Aurigi, che adesso si era mosso. Ma non aveva fatto un solo movimento e, anche a non averlo visto, s’indovinava dalla sua posizione di adesso, qual’era stato. Una specie di crollo di tutta la persona, che si era rovesciata sul divano. Aveva chiuso gli occhi. Doveva sentirsi letteralmente schiantato.
De Vincenzi lo guardò per qualche secondo soltanto, perché voleva poter pensare lontano da lui, lontano al punto da non averne più con sé un’immagine precisa. Lo aveva veduto disteso. Bastava! Non voleva osservarne le contrazioni del volto, le pieghe profonde che gli si erano fatte attorno alla bocca, sulla pelle glabra. Il cerchio nero degli occhi.
Uscì in fretta.
Cruni era entrato nella sala, aveva guardato Giannetto Aurigi, che sembrava dormire, e s’era seduto anche lui su quella poltrona vicino al tavolo, che prima era occupata dal commissario. Doveva attendere che le ore passassero. Guardò la pendola e trasalì. Segnava le cinque e dieci. Il brigadiere trasse l’orologio dalla tasca e per qualche minuto rimase a fissare quelle due macchine, che avrebbero dovuto segnare di conserva l’attimo che fuggiva e che, invece, egli lo vedeva senza possibilità di dubbio, lo segnavano con così grande differenza una dall’altra.
R
5. Un giovane biondo, in una soffitta
Poche ore di sonno agitato. Adesso aveva fatto il bagno ed usciva. Non erano ancora le otto, ma De Vincenzi sentiva il bisogno di camminare. Sarebbe andato a piedi fino in via Monforte. Lui abitava al Sempione e la strada era lunga. La mattina era rigida. Una nebbia vaporosa, più fitta man mano che saliva, sembrava si alzasse dal Parco verso il cielo. E il cielo non lo si vedeva neppure, se non sotto la specie di altra nebbia più grigia, più spessa, più fonda.
De Vincenzi non attraversò il Parco. Avrebbe abbreviato e invece voleva camminare.
Rientrato in casa, che eran forse le cinque, si era gettato vestito sul letto e si era addormentato. Un sonno d’incubi. E adesso sentiva il bisogno di pensare a mente lucida.
Conosceva Giannetto o credeva di conoscerlo. Un po’ poeta della vita, con le ali tarpate dai bisogni, dai vizii, da uno sconfinato desiderio di godimento. Forse, non di una moralità adamantina, nel senso che lui non si era mai data la pena di formulare a se stesso le regole di una morale di tal genere. Ma onesto, sì. Certo, incapace di commettere un delitto e di commetterlo a quel modo, che era insieme abile e sciocco, lineare e sconvolgente.
Poiché, infatti, il quadro si presentava così. Aurigi doveva una somma di denaro a Garlini. Forte, fortissima, forse. Non poteva pagarla. Lo aveva detto. Ad ogni modo sapeva che quello era un fatto da potersi controllare facilmente. Era andato alla Scala, secondo quanto aveva affermato, ma ne era uscito alle undici e aveva vagato per la città.
Sempre a prestar fede alle sue parole. Ma, poiché, invece, a prestar fede non gli si doveva, senza aver prima dubitato e vagliato, De Vincenzi doveva ammettere che dalle undici alla una circa, quando s’era presentato a San Fedele, Giannetto avesse potuto agevolmente commettere il delitto. Ma dopo, che cosa aveva fatto? Ecco: la cosa appunto più abile e sciocca. Si era recato da lui, da lui De Vincenzi, in Questura e gli si era mostrato nervoso, agitato, e s’era lasciato andare a mezze frasi, che non potevano non rilevare in lui uno stato d’animo di eccezione. Ma poteva dirsi lo stato d’animo di un assassino?
Sì, abile sarebbe stato a recarsi proprio da lui, se avesse saputo tenere un altro contegno, pur pensando, come prima idea, nel turbamento dell’azione commessa, che era meglio, per disperdere ogni sicuro sospetto, recarsi propri lì… In Questura. Oppure vi era andato, nel primo smarrimento, senza sapere quel che si facesse.
Adesso, De Vincenzi ricordava. A mezzanotte, quando si recava a San Fedele, si era incrociato con un uomo in frak e tuba. E quell’uomo era Aurigi. Passava dalla piazza in via Agnello, camminava senza vedere nessuno, andava nel freddo della notte invernale. Adesso lo ricordava, con leggero stupore, per non averci pensato prima. Quando se lo era visto davanti, nella sua stanza di San Fedele, perché non gli aveva detto subito: «Un’ora fa ti ho incontrato qui davanti, che camminavi nella nebbia. Dove andavi?» E perché non aveva subito riconnesso quell’incontro con l’agitazione dell’amico?
Certo, lui non poteva prevedere che, dopo un quarto d’ora o mezz’ora, il telefono gli avrebbe annunziato che in casa di Aurigi c’era un cadavere. Tuttavia…
Dunque, Giannetto poteva essere l’assassino. Forse, tra poco, ne avrebbe trovata la causale, se non addirittura le prove. Ma De Vincenzi sentiva che la verità non era quella, che c’era qualche altra cosa di più oscuro e di più complesso.
Ma, se non lui, chi?
La portinaia aveva finito con l’ammettere che quasi tutti i giorni una signorina si recava da Aurigi. E quella signorina, egli lo aveva intuito immediatamente, doveva essere la sua fidanzata, la figlia del conte Marchionni. Per di più, quel giorno anche un vecchio signore si era recato a casa di Giannetto e la signorina doveva essersi incontrata con lui o forse aveva rinunciato a vedere il suo fidanzato, soltanto perché quella terza persona era presente. Qui la linea degli indizi si faceva più solida e più diritta e De Vincenzi volle convincere se stesso che doveva seguirla. Ma fino a dove? E dove essa lo avrebbe condotto?
A quel punto, come per un lampo improvviso, si vide dinanzi la portinaia prosperosa e belloccia e quel suo marito striminzito e sparuto e sentì ancora la voce di lui, che supplicava:
«Non le creda! Non le creda!… Noi non sappiamo nulla!»
E lei, la donna, aveva subito accusato quello della soffitta. «Se c’è stato un furto, è lui il ladro» aveva detto.
Lui, chi?
E adesso si pentiva di non aver badato a quel particolare e di non esser subito andato in fondo alla cosa.
Lo avrebbe fatto appena in via Monforte.
Ma prima aveva altro da fare.
Giunto in Piazza Cordusio, si accorse che, assorto nei suoi pensieri, era andato troppo oltre. Tornò indietro ed imboccò via Meravigli. Trovò facilmente la Banca Garlini: due grandi targhe d’ottone lucente ai lati di uno dei primi portoni.
Entrò e vide il custode e qualche impiegato. I più mattinieri, perché non erano ancora le nove. Ma il cassiere c’era. Un pezzo d’uomo alto e grosso, tutto rosso in viso. Il collo corto sulle spalle larghe e quadre reggeva il capo pesante, dai capelli biondastri.
«Brutta complessione, per un cassiere!» pensò De Vincenzi. «Se gli piglia un colpo apoplettico a cassa aperta, mette uno spavento del diavolo a tutti quanti…»
Gli si era ridestato lo spirito ironico. Lo interrogò rapidamente. Il cassiere aveva soltanto voglia di dir tutto quel che sapeva. De Vincenzi guardò i libri, ma smise subito: non ci capiva nulla ed era un lavoro inutile, perché tra poco sarebbero venuti gli esperti contabili e lui avrebbe saputo egualmente quel che gli interessava. Invece, ascoltò il cassiere e una notizia che questi gli diede se la fece ripetere due volte.
«Ne siete proprio sicuro?»
«Perbacco!» esclamò quell’altro, facendosi più rosso ancora.
«Li ho tolti da questo pacco proprio davanti a lui, per darglieli. Guardi qui! Questi adesso sono ottanta, invece di cento. Li vuol contare?»
No, il commissario non voleva contarli. «E a cosa dovevano servirgli?»
Il cassiere rise a quel modo un po’ stento e ghignoso con cui ridono le persone rosse:
«Eh! se lei crede che il padrone venisse a rendere i conti proprio a me! Qualche pollanchella, toh!… Gli piacevano le donnine,