Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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dire che quell’orologio lì,» e indicò la pendola sul caminetto, «va un’ora avanti.»

      De Vincenzi trasse l’orologio dalla tasca, guardò la pendola e trasalì. Ma non disse nulla e rimise l’orologio in tasca.

      «Non ha importanza! Mi dicevi del giudice.»

      «Tornerà più tardi.»

      «Chi è?»

      «Non lo conosco. È giovane. Mi sembra di aver capito però, da quanto mi ha detto il cancelliere, che di questo affare si occuperà personalmente il Procuratore…»

      Il commissario alzò le spalle.

      «Purché mi lascino ancora per un po’ libero d’agire…»

      Indicò col capo il dormiente.

      «Lo ha interrogato?»

      «Sì. Ma non ha detto nulla. Le generalità e basta. A tutte le domande rispondeva: “Non so niente”.»

      Seguì un silenzio. De Vincenzi si guardava attorno. Andò alla porta del salottino e si voltò verso Cruni:

      «Hanno portato via il cadavere, eh?»

      «Subito appena il giudice ha dato il nulla osta.»

      «Il giudice ha perquisito l’appartamento?»

      L’altro fece un gesto.

      «Così!… Ha dato un’occhiata… Ha detto che manderà i funzionari del Gabinetto scientifico per i rilievi… Ma sorrideva, come per dire che erano tutte storie inutili… Ho l’impressione che fosse convinto della colpevolezza di quello lì, che dorme… Mi ha domandato se lei lo aveva dichiarato in arresto.»

      Questa volta, il commissario non trasalì neppure e non sorrise. Certo! In arresto avrebbe dovuto dichiararlo. Ma sarebbe stato inutile.

      Di nuovo seguì un silenzio. De Vincenzi si mosse verso l’anticamera, poi si fermò:

      «Il cameriere?»

      «E chi lo ha visto!»

      «Chiamami il commissario Maccari al telefono…»

      Il brigadiere guardò il suo superiore con meraviglia.

      «Ma dormirà, dottore!… Era di servizio questa notte!»

      «Chiama il Commissariato Duomo… Se non ci sarà Maccari, ci sarà qualche altro…»

      Cruni andò al telefono e poco dopo si affacciava alla porta, tenendo in mano il cornetto appeso al cordone verde:

      «Ecco dottore…»

      De Vincenzi prese il ricevitore:

      «Pronto!… Ah! sei tu… Sì, buon giorno! Maccari t’ha lasciato il rapporto?… Bene! Sì, naturalmente, il questore ha affidato a me l’inchiesta… Ecco, ho bisogno che tu mi trovi subito il conducente del tassi, che ha portato ieri la contessina Marchionni… Sì, era di stazione in via Monforte, all’angolo di via del Conservatorio… alle diciassette, diciassette e mezzo… Sì, grazie… Un’altra cosa! La Centrale ha dato gli ordini per ricercare il cameriere… Giacomo Macchi… Debbono averne telegrafato il ritratto parlato in tutta Italia e alle frontiere… Cercatelo anche voi… Soprattutto sappimi dire, se risulta qualcosa sul suo conto… Come? Nel casellario nulla. Grazie… Nient’altro… Per ora… Ah! Quando viene Maccari, pregalo di telefonarmi… Grazie, ciao…»

      Riattaccò il ricevitore e tornò in sala.

      Giannetto Aurigi dormiva sempre. Adesso, non era più agitato, non si muoveva nemmeno.

      Il commissario riprese a parlare con Cruni.

      «Hai preso le informazioni su chi abita qui accanto?»

      «Ho incaricato Verri di farlo e lui mi ha portato il biglietto di visita del padrone dell’appartamento… È un ingegnere…»

      «Ce l’hai?»

      «Che cosa? Il biglietto? Eccolo, me lo sono fatto lasciare da Verri, il quale voleva consegnarlo direttamente a lei…»

      De Vincenzi prese il biglietto e lesse: Vittorio Serpi. Non lo conosceva. Chiese:

      «Ha famiglia?»

      «Moglie… Due figli… Domestica…»

      «Hanno sentito nulla?»

      «Nulla…»

      «A che ora è rincasato, stanotte?»

      «Alle dodici. Dopo teatro. Dice di aver trovato il portone chiuso e le scale deserte…»

      «Odore di cordite per le scale?»

      «Non credo… Lo avrebbe detto.»

      «Dopo, lo farai venire in Questura, nel pomeriggio di oggi… Con tutti i suoi familiari.»

      Dal divano venne un sordo gemito e l’uomo disteso si mosse. Non vaneggiava. Non era più sotto l’incubo del sogno. Si svegliava, lentamente. Tornava dalla notte buia al chiarore della percezione.

      De Vincenzi afferrò Cruni per un braccio e lo spinse verso l’uscio di fondo:

      «Taci…! Va’ di là… Non farti vedere, fin quando non ti chiamo…»

      Cruni sparì.

      Giannetto, sempre mandando piccoli gemiti interrotti, si agitava sul divano, quasi volesse trovare una posizione comoda per riaddormentarsi. Ma non ci riuscì e aprì gli occhi. Si guardò attorno, per comprendere dove si trovasse. Vide la camera, i mobili familiari, poi guardò se stesso ancora in frak e con la pelliccia addosso e sul volto gli si diffuse una profonda meraviglia. Non capiva.

      Scorse De Vincenzi. Come un lampo, si fece la luce nel suo spirito ed egli balzò a sedere sul divano. Aveva il volto contratto, ma fermo e rigido.

      De Vincenzi affettò indifferenza e gli disse con tono gioviale:

      «Buon giorno!… Hai riposato?»

      «Ho riposato…» rispose Giannetto con voce bianca, quasi afona.

      E si alzò lentamente.

      «Hai riposato sul divano!… Non è il posto più comodo…»

      «Non avevo da scegliere… Volevi che andassi di là?…»

      Ma non si era voltato ad indicare la porta del salottino. Certo ne aveva ancora orrore.

      De Vincenzi, invece, fissava quella porta e rispose con indifferenza, quasi volesse mostrare di non dare importanza alla cosa:

      «Oh! Adesso puoi andarvi. Non c’è più…»

      L’altro lo interruppe e la voce gli si era fatta quasi stridula:

      «Lo so…»

      «Eri sveglio, quando lo hanno portato via?»

      «Sì…»

      Ebbe un brivido visibile e si raccolse in se stesso.

      Seguì un silenzio lungo. Troppo lungo. Il commissario avrebbe voluto farlo cessare e non trovava la frase adatta. Finalmente, chiese:

      «Il giudice ti ha interrogato?»

      L’altro sembrò destarsi di nuovo, tanto era assorto.

      «Come dici?… Già! Stamattina…»

      «E tu?»

      «Non ho confessato.»

      Il suo sarcasmo, dando quella risposta, era doloroso, più che amaro, sanguinante.

      De Vincenzi credette giunto il momento di andare un poco a fondo. Alzò le spalle ed esclamò, con brutalità da poliziotto: «Non era necessario, neppure!»

      Giannetto sogghignò: