inevitabile e definitiva avrebbe potuto produrre su mia figlia…»
Il conte passeggiò per qualche minuto per la camera e poi deliberatamente si fermò davanti al commissario:
«Mia figlia amava il suo fidanzato,» scandì con forza. «Ella lo aveva liberamente scelto. Per sposarlo, avrebbe perduto il titolo…»
Tacque, aspettò che De Vincenzi dicesse qualche cosa e, poiché invece quello taceva, riprese a camminare per la stanza. Parlava quasi tra sé, dimenticando che non era solo:
«Certamente, non avrei mai potuto pensare ad una cosa così terribile… ma sapevo Aurigi nella più grave delle situazioni finanziarie… Lo vedevo ridotto alla rovina… Al fallimento… alla fuga, forse… Sapevo che Maria Giovanna aveva avuto con lui, ieri sera stessa, una spiegazione violenta… Nel palco e poi nei corridoi li avevo veduti parlare concitatamente…»
Si fermò di nuovo e fissò l’altro, che taceva sempre, osservandolo:
«Presentimento, eh?» disse con un sogghigno amaro. «Intuizione! Che c’è di strano che mi fossi sentito nervoso e turbato?»
De Vincenzi credette di aver taciuto abbastanza.
«Non era per questo suo presentimento, che io ho esclamato: strano!» disse con voce tranquilla. «La stranezza è altrove…»
Il conte si mise sulla difensiva:
«Si spieghi.»
«È strano, dicevo, che lei abbia potuto assistere al ritorno di sua figlia a casa, alla una, se si trovava al Savini… o al Clubino...»
Il turbamento del conte non fu eccessivo. Egli sorrise:
«Oh! così?… Infatti, non l’ho veduta tornare. Il portinaio mi ha detto, questa notte stessa, a che ora era rientrata e mia moglie me lo ha confermato. Le sembra che tutto ciò abbia la minima importanza?»
«Nessuna!» disse De Vincenzi con indifferenza.
«Appunto! Nessuna. E non trovo che lei debba torturarsi eccessivamente il cervello, per ricostruire la scena del delitto…»
«Le pare! Sì, di ricostruzioni logiche ce n’è più di una. Ma suonano tutte false, come campane incrinate…»
Marchionni ebbe uno sguardo di sincera commiserazione:
«E lei è giunto a questa conclusione!»
«No! Io non sono giunto ancora a nessuna conclusione… Cerco!»
«Sta bene,» disse il conte, con voce fredda, come per troncare quel colloquio. «Ma lascerà che anche Harrington cerchi e non gli intralcerà i movimenti, non è vero?»
«Certo no! Purché cerchi realmente le prove della verità.»
Il conte si diresse verso la porta del salottino:
«Vado a dirglielo, allora, se permette.»
De Vincenzi si inchinò:
«S’accomodi…»
Quando lo vide sull’uscio, lo richiamò:
«Mi scusi, signor conte! Posso permettermi di telefonare alla contessa, per pregarla di ricevermi?»
Marchionni si volse lentamente e guardò De Vincenzi con perfetta tranquillità:
«Non può telefonare al palazzo, dottore…»
Fece una pausa calcolata. Certamente, pensò tra sé De Vincenzi, è un uomo abile! Lui aveva perfettamente compreso a che cosa mirasse la richiesta del commissario. E infatti continuò quasi con ironia:
«Non abbiamo telefono… Non ho mai voluto metterlo…»
«Allora, se crede, vorrebbe avvertirla lei di una mia visita?»
«Naturalmente. Lo dirò a mia moglie io stesso e lei potrà venire oggi nel pomeriggio…»
Rispose con un cenno della testa all’inchino del commissario e scomparve nel salottino.
De Vincenzi rimase assorto. Quel colloquio gli aveva rivelato un orizzonte nuovo. Nuovo e niente affatto sereno. Dove si sarebbe andati a finire? Adesso, il dramma si metteva per vie tortuose e irte di ostacoli d’ogni genere. Evidentemente, quel gentiluomo aveva uno scopo, che non era certo quello da lui confessato. Ricordava il paragone già fatto, De Vincenzi, e pensava che anche Marchionni suonava falso come una campana incrinata.
Ma perché? In lui dov’era la screpolatura e da che cosa causata?
Esitò un poco, poi si decise e andò rapidamente alla porta della sala da pranzo. Guardò dentro e fece cenno a Cruni di raggiungerlo, quindi richiuse subito la porta. Quando il brigadiere gli fu vicino, lo prese per un braccio confidenzialmente e gli mormorò:
«Cruni, amico mio… Voi avete fiducia in me, vero?»
Lui gli dava un po’ del tu e un po’ del voi, secondo i momenti.
Cruni non si meraviglò né del tono, né delle parole del suo superiore. Lo conosceva e gli voleva bene. Era un commissario, che non angariava i propri dipendenti con eccessive pretese. L’unico sempre cortese con loro. L’unico, che non facesse ricadere su gli altri i propri errori e tutte le noie del servizio.
«Sono otto anni, dottore,» disse con voce quasi commossa, «che sto con lei! È lei che deve avere fiducia in me… Io farei qualunque cosa per meritarmela!»
E sottolineò la frase, con un gesto energico, stringendo il pugno ed agitandolo in aria.
De Vincenzi ebbe un sorriso.
«Lo so, Cruni! Ebbene, adesso io faccio proprio assegnamento su di voi… Debbo…»
Ebbe una breve esitazione, fissò il dipendente negli occhi e vi lesse una tale franchezza, che subito riprese:
«Cruni, io sto per fare qualcosa di non regolare… di non molto regolare… e voi la dovete fare con me, se acconsentite! Ma è necessario! Oh! Non soltanto per salvare quello lì…» e indicò la porta della camera da pranzo, «… se pure meriterà di essere salvato…»
Il brigadiere lo interruppe:
«Dottore, quell’uomo non ha ucciso! Glielo dico io, che me ne intendo! Non ha ucciso!»
De Vincenzi mormorò:
«Non lo so, Cruni! Io stesso non lo so! Quanto so con sicurezza, però, è che in questo delitto c’è qualche elemento… e proprio l’elemento più atroce… che è estraneo ad Aurigi. Ebbene, Cruni, bisogna, capite? bisogna che io veda chiaro e sino in fondo. I mezzi normali, legali, regolamentari, non bastano e non servono, in questo caso… Io debbo ricorrere agli altri mezzi, se voglio arrivare sino alla verità, a tutti gli altri mezzi, qualunque essi siano. La mia coscienza me lo permette, anzi mi ci obbliga, anche se il regolamento o il codice me lo vietano. Quindi, ho bisogno di voi. Siete disposto ad aiutarmi?»
«Disponga di me, dottore!» disse Cruni, mettendosi una mano sul petto.
«Sì, conto su voi! Adesso vi dirò che cosa c’è da fare, ma prima chiamatemi un agente. Ce ne debbono essere due in portineria. Fatemi venire il più sveglio.»
Il brigadiere uscì rapidamente dal fondo, lasciando aperto l’uscio dell’ingresso.
De Vincenzi fissò la porta della camera da pranzo. Lentamente si avvicinò ad essa, ascoltando. Non sentì il più piccolo rumore. La socchiuse e vide Giannetto seduto davanti al tavolo, con la testa fra le mani. Non si muoveva e non si mosse neppure, quando l’uscio si aprì.
De Vincenzi ebbe un sorriso amaro e richiuse la porta.
Tornò in mezzo alla stanza. Guardò di nuovo verso Aurigi e questa volta ebbe un gesto d’ira. Ma perché si ostinava a tacere? Perché lui doveva proprio salvarlo ad ogni costo?
Dall’ingresso vennero Cruni e un