qualche centinaio di mille lire, che non aveva…»
«Credete?» chiese la voce ironica del commissario De Vincenzi.
«Ma questo lo so io!» intervenne il conte. «Non lo credo, lo so!»
De Vincenzi si alzò e disse con perfetta cortesia:
«Mi permetta di dirle, signor conte, che lei è in errore, come noi tutti eravamo in errore. Chi mi telefonava, due minuti fa, era il Questore. Ebbene, il Questore mi ha comunicato che la scoperta più importante fatta dai periti era stata effettuata sui libri della Banca Garlini.»
Guardò in faccia i due uomini e fece studiatamente una lunga pausa.
«Aurigi,» continuò, poi, scandendo le parole, «doveva a Garlini esattamente cinquecento e quarantatremila lire.»
«Vede!» gridò il conte, con accento di trionfo!
«Vedo!» riprese con pacatezza il commissario. «Ma dai libri di Garlini risulta che, in data di ieri, questo denaro è stato versato!»
«No!»
«È impossibile!»
Il conte ed Harrington avevano esclamato nello stesso tempo. Il loro stupore appariva così grande, che doveva essere sincero.
Lentamente, De Vincenzi trasse dalla tasca un foglio piegato, lo aprì e si mise a fissarlo.
Gli altri due lo guardavano, sempre in preda a profonda meraviglia.
Dopo una lunga pausa, De Vincenzi disse:
«È tanto possibile, signor conte, che io, cercando negli abiti che indossava Garlini, ho trovata questa ricevuta, che le leggo.»
E, pronunciando le parole lentamente, lesse:
«Ricevo lire cinquecentoquarantatremila dal signor Giannetto Aurigi a completo saldo del suo dare a copertura della differenza passiva delle azioni da lui possedute e vendute a riporto a fine dicembre corrente.»
Tese la ricevuta al conte.
«Vede? Bolli e firma. Tutto regolare.»
Il conte, adesso, era sconvolto.
«E lei dice,» disse balbettando, «che quella ricevuta…»
«Precisamente. Questa ricevuta si trovava nella tasca del frak di Garlini…»
Prese un tempo e poi aggiunse, indicando la parte destra del proprio petto:
«In questa tasca del petto…»
«In quella tasca, no! Non c’era!» esclamò il conte, con uno scatto istintivo.
De Vincenzi disse subito:
«Infatti, in quella tasca, no. Era in un’altra… Ma lei, conte Marchionni, come fa a saperlo che non c’era?»
Il conte si era fatto livido.
Harrington, colpito, aveva fatto un passo indietro, quasi per allontanarsi dal suo cliente.
Nella stanza pesò un silenzio ansioso.
R
9. «Sono stata io ad ucciderlo!»
I quattro uomini nella stanza rimanevano immobili.
De Vincenzi, con le mani in tasca, pacato e sereno, osservava il conte, senza dare al suo sguardo alcuna evidente forza di penetrazione. Era in lui il desiderio di togliere alla esclamazione del conte ogni importanza. Voleva proprio scarnire l’incidente, renderlo lineare, togliere ogni enfasi a quel grido lanciato inconsapevolmente e che scopriva il lato profondamente vulnerabile e vulnerato di uno degli attori del dramma.
E Marchionni, quasi avesse compresa l’intenzione del commissario, si era istantaneamente calmato. Non la più piccola commozione. Soltanto l’immobilità, neppure mossa da un respiro più frequente. Si sarebbe detto che anche lui attendesse, come De Vincenzi, che i fatti si spiegassero da soli.
Il più impressionato di tutti era Harrington a cui il fulgore del brillante toglieva luce agli occhi, che si erano spenti. Tutta la sua furberia gli si era come liquefatta sul volto, che appariva slavato. Si era allontanato da Marchionni e si sarebbe detto che, con quel gesto, avesse voluto estraniarsi dalla vicenda, quasi avesse compreso che essa lo sorpassava, tanto più grande di lui, da togliergli ogni velleità di approfondirla.
Ultimo giunto e fino adesso figura di contorno, Giacomo Macchi, il cameriere, anch’egli un po’ in disparte, per abitudine delle sue funzioni, fissava in terra, evidentemente più imbarazzato che sorpreso o colpito da tutti quegli avvenimenti che, iniziatisi con un fatto mortale, si presentavano adesso carichi di pericolo, come una bomba di dinamite.
De Vincenzi ricapitolava in se stesso i fatti, cercando di fare il punto con la rapidità del navigatore, che teme tempesta. Non c’era tempo per lui di disporre il sestante e di calcolare preciso. Occorreva lavorare d’intuizione, soprattutto. Per intuizione, aveva tratto, quasi inconsciamente, il conte Marchionni nel tranello e, quando aveva a bella posta mentito, affermando che la ricevuta si trovava nella tasca del petto del cadavere, non sapeva neppur lui perché si stesse valendo di quella menzogna. Poi essa aveva dati frutti insperati. Insperati, ma di quale valore? Era ammissibile che ad uccidere Garlini fosse stato il conte? Sì, poteva anche essere ammissibile; ma occorreva allora trovare tutti gli altri elementi, che mancavano.
Pensava e nello stesso tempo voleva interdirsi di pensare. Avrebbe voluto realmente agire come un rabdomante, per forza inconscia. Cercava un assassino e doveva trovarlo con la bacchetta sensibile.
Il silenzio continuava su quei quattro uomini immobili, neppur ansioso, adesso, ma quasi catalettico. Un silenzio stagnante.
Come rompere la lutulenza di quell’atmosfera? Come uscire di nuovo a respirare l’aria libera? Come muoversi?
E naturalmente fu sempre il caso che operò, come un sasso lanciato in uno stagno.
Di nuovo il campanello della porta squillò, nervoso, e tutti sobbalzarono. Senza accorgersene, avevano mandato un sospiro di sollievo.
Ma fu breve.
Un’altra angoscia li afferrò, tutti e quattro: quale manifestazione dell’imprevisto, sotto quale specie, sarebbe entrata adesso da quella porta, che l’agente di guardia nella sala d’ingresso si recava ad aprire?
La persona, che entrò, era una donna. Passò diritta davanti all’agente ed entrò nella sala da pranzo, per nulla stupita di trovarvi quegli uomini, che con gli occhi attoniti la fissavano.
Era bellissima e giovanissima. Molto elegante, teneva nelle mani inguantate una borsetta d’oro e con le mani si chiudeva sul petto la pelliccia.
De Vincenzi la fissava, con gli occhi sbarrati e il respiro oppresso.
La donna della fotografia! La donna del giovane biondo!
Eppure era anche, egli non poteva dubitarne, la fidanzata di Giannetto Aurigi.
Il dramma balzava rapido, fosforescente, inatteso!
Ecco l’anello di congiunzione.
L’ultimo piano della casa, quella soffitta linda e quasi preziosa, andava ad unirsi al secondo piano, all’appartamento da scapolo di Aurigi, in cui era stato trovato un cadavere.
Quel nuovo legame sorgeva ad affermare una complessità di fatti misteriosi e nascosti, che balenarono improvvisamente allo spirito di De Vincenzi, sconvolgendolo.
Egli si sentiva profondamente turbato. Una sottile angoscia l’invadeva. Quell’uomo, chiuso nella stanza accanto, guardato a vista, che lui aveva dovuto dichiarare in arresto, era, dunque, non soltanto innocente, ma anche colpito da una disgrazia più grande, che ancora ignorava e che stava per dargli un nuovo profondo cattivo dolore? Oppure lui sapeva e tutto il dramma s’imperniava su quella sua conoscenza?
Non