persone – il fatale triangolo, il cerchio magico del tradimento amoroso – si ripercuotesse sopra una quarta, che non aveva verosimilmente rapporti se non con una di quelle tre e ad ogni modo rapporti soltanto finanziari?
De Vincenzi dovette fare uno sforzo rabbioso su se stesso, per non dimostrare tutta la sua smarrita sorpresa.
Il primo che parlò fu Marchionni. Il vecchio, vedendo entrare sua figlia, aveva sussultato e il volto gli si era fatto livido.
«Perché sei venuta qui, Maria Giovanna?» chiese con voce rauca, in cui vibrava, più che l’indignazione, un’angoscia sorda.
La figlia guardò il padre con semplicità, quasi meravigliata di quella domanda:
«Perché te ne stupisci, papà? Sono la fidanzata di Giannetto Aurigi…»
Gli occhi del conte sfavillarono.
«Tu non sei più la fidanzata di Aurigi e questo non è il tuo posto! Torna via!»
«T’inganni, papà!» e la voce di lei era sempre così armoniosamente netta, da far quasi credere ch’ella ignorasse quel che invece sapeva. «Anche se Giannetto avesse ucciso, io non lo abbandonerei. Ma egli non ha ucciso! E io lo so!»
«Taci! Sei pazza, Maria Giovanna!»
Il grido, questa volta, aveva raggiunto il massimo della violenza. Era visibile che Marchionni si tratteneva a stento dal correre contro sua figlia e dal chiuderle proprio materialmente la bocca con le mani.
Si voltò a De Vincenzi e parlò quasi supplichevole, con un’angoscia piena di strazio:
«Non l’ascolti, lei!… Non ascoltatela!… Non sa quel che si dice!…»
De Vincenzi osservava.
Lentamente, sempre con la medesima semplicità nuda e scarna. Maria Giovanna scandì:
«No! Non è stato Aurigi ad uccidere Garlini!… Sono stata io!»
Il dramma, dopo queste parole, balzò tutto e soltanto tra questi due esseri: padre e figlia. Anche De Vincenzi, come quegli altri due che non contavano, era scomparso. Non esistevano che il vecchio gentiluomo, tremante, fremente di collera e d’orrore, e la giovane bellissima, soltanto un po’ pallida, con le labbra troppo accese, come un ferita aperta in quel pallore.
«Pazza! Pazza!… Perché menti, per salvarlo?!»
Strinse convulsamente le mani e, sempre rivolto a De Vincenzi, supplicò:
«Non le creda!… Non ha senso comune tutto questo!… Mia figlia non si trovava qui ieri notte! Mente per salvarlo…»
E la giovane fece un passo avanti ed ebbe un gesto energico.
Affermava una verità, che sapeva inoppugnabile.
«C’ero!… E tu, papà, perché menti, per perderlo?!»
Gli altri avevano trasalito.
Adesso realmente il ferro entrava nella ferita, vi girava e la scarnificava.
Il conte, quasi fosse stato colpito da una mazzata sulla testa, si era schiantato di colpo sul divano. Con il capo fra le mani, respirava a fatica.
Tutti tacevano.
Fu in quell’istante che l’orologio a pendolo, dal caminetto, prese la parola. E batté le ore una dopo l’altra lentamente.
De Vincenzi a quel suono sussultò.
Fissava l’orologio con occhi accesi, come davanti ad una rivelazione. Muoveva le labbra silenziosamente, per contare i colpi.
Quasi suggestionati da lui, gli altri seguivano quei suoni e contavano. Anche il conte aveva levata la testa.
L’orologio batté undici colpi.
Poi tacque.
De Vincenzi, con un gesto conclusivo, come se facesse la somma e mettesse il punto ad una frase, trasse l’orologio e lo guardò.
«Sono le dieci,» disse.
Allora, anche il conte si alzò e tutti gli altri ebbero un sobbalzo. Giacomo fece un passo verso l’uscio, poi si trattenne e tornò dov’era. L’unico a non rendersi conto di quel che stava accadendo fu Harrington.
Il commissario apparve di colpo come liberato da un peso, che gli avesse impedito fino allora i movimenti. Si mosse con disinvoltura nuova. Tutto in lui era adesso semplice, spontaneo, naturale.
«Signori miei,» disse pacatamente, «io credo che ognuno di voi, per ragioni diverse, abbia bisogno di un po’ di riposo. Non si può richiedere ai propri nervi uno sforzo maggiore di quello, che possono fare. O altrimenti si rischia di tenderli fino allo strappo.»
Girò lo sguardo sul volto di ognuno e continuò:
«L’atmosfera di questa camera è riscaldata a calor bianco. Cattiva temperatura, per avere il cervello a posto e le idee chiare. Io stesso temo che le vibrazioni precipitate dei vostri polsi influiscano sul mio giudizio. Comprenderete, quindi, perché io vi preghi di lasciarmi solo, con le mie idee. È necessario che le ordini e le domini. Vero?»
Nessuno parlò. Subito, quasi avesse temuto che qualcuno potesse pentirsi di quel silenzio, il commissario aggiunse in fretta:
«Grazie. Vedo che mi avete compreso. Allora…»
Si guardò attorno e si diresse per primo verso il conte.
«Conte Marchionni, la prego, favorisca in questa camera…»
E lo trasse verso l’uscio del salottino.
Marchionni aveva ritrovata la freddezza. E anche la sua alterigia.
«A quale conclusione vuol giungere, lei? Spero che, per quanto surriscaldato, il suo cervello le abbia servito a non dare un valore eccessivo alle parole dissennate di mia figlia!»
«Infatti!» rispose De Vincenzi, sempre spingendolo dolcemente verso il salottino. «Ma non dubiti! Io mi sono imposto, soprattutto, di non dare valore alle parole… Penso, più che mai adesso, che in ogni rapporto coi nostri simili, in mancanza di prove indiscutibili… e prove indiscutibili non esistono mai o quasi mai… si debba cercare di scoprire da soli soltanto il valore degli individui!… La prego, si accomodi e aspetti lì dentro…»
Il conte, raggiunto l’uscio si volse:
«Vuol dire che lei mi trattiene?»
«Ma no! Vuol dire che la prego di trattenersi qui, per poco tempo ancora…»
«Non teme le conseguenze di un arbitrio?»
«Arbitrio?» fece De Vincenzi con voce realmente stupita. «Parola elastica…»
«Crede?»
E l’ironia di quella domanda suonò come una staffilata. Ma De Vincenzi non la ricevette e Marchionni alzò le spalle, concludendo:
«Del resto, faccia lei…»
E scomparve nel salottino.
Il commissario chiuse la porta e poi si voltò verso gli altri. Il più vicino a lui era Harrington ed egli gl’indicò l’uscio d’ingresso:
«Harrington, credo che voi non abbiate più nulla da fare qui. A più tardi…»
L’altro vinse l’imbarazzo, per dire:
«Non intendo occuparmi più di questa faccenda, commissario. Altri penserà a far sapere al Questore che sono stato messo nell’impossibilità di valermi dell’autorizzazione avuta…»
De Vincenzi lo interruppe quasi con violenza:
«Ah! No. Harrington! Adesso, di questa faccenda mi occupo io e anche voi c’entrerete, se lo vorrò. Ad ogni modo, vi prego di venire da me, nel mio ufficio, alle tre di oggi. Arrivederci.»
E