allora… Allora tu sei stato davvero due ore in giro per Milano? È proprio la verità, quella che hai detta?»
«Ah!»
Dunque, il commissario non sapeva nulla. Nessuno lo aveva veduto passeggiare per Milano in quelle ore. E Giannetto ricadde nella sua apatia rassegnata:
«Vedi! Non mi ha veduto nessuno! E poi? Che cosa potrebbe dimostrare? Posso averlo ucciso prima di mettermi a passeggiare… Subito… Non sarò mica rimasto qui dentro a contemplare il cadavere!»
Stava per continuare, ma De Vincenzi lo interruppe:
«Dimmi! Conosci Remigio Altieri? Almeno, questo potrai dirmelo, no?»
L’altro si fermò a guardarlo.
Non capiva.
«Remigio Altieri?!» chiese profondamente stupito.
«Sì. Un giovane biondo, che abita…»
Chi sa perché il commissario s’interruppe a mezzo e si trattenne dal dirgli dove abitava:
«No, non l’ho mai sentito nominare,» affermò con sincerità Aurigi.
In quell’istante squillò il campanello della porta. Giannetto ebbe un fremito lungo, istintivamente diede qualche passo addietro, quasi per ritrarsi da un possibile pericolo.
Tutti e due rimasero a fissare, oltre l’uscio della sala, la porta d’ingresso, che si apriva.
E fu da quel momento che quella porta, terribile Nemesi, cominciò ad assumere le funzioni del Destino e a regolare, col suo spalancarsi nei momenti culminanti, l’andamento dell’azione.
R
7. Il conte Marchionni
Entrò per primo un vecchio forte e diritto, molto distinto, elegante di un’eleganza quasi giovanile. Lo seguiva un uomo piccolino ed esile, ma che ognuno si sarebbe voltato per la strada a guardare, tanto il suo abito grigio-chiaro era vistoso e tutto il suo modo di fare attirava l’attenzione. Aveva anelli alle dita, un grosso brillante alla cravatta dai colori vivaci. E sopra quel fantastico brillante e quella non meno fantastica cravatta, un volto volgare, da furetto, che sembrava fiutasse in sempiterno.
Cruni si era tratto da parte, per lasciarli entrare ed aveva chiusa la porta dietro di essi.
Il vecchio avanzò con sicurezza, dicendo:
«Vorrei parlare al commissario incaricato dell’inchiesta. Mi hanno detto in Questura che si trova qui. Sono il conte Marchionni.»
Aveva il volto grave ed ermetico e, quando vide Giannetto, non un muscolo della faccia gli si contrasse.
De Vincenzi ritrovò immediatamente la sua serena sicurezza. Avanzò verso il sopravveniente, inchinandosi, con freddezza:
«Commissario De Vincenzi. Sono a sua disposizione…»
Poi guardò Harrington ed ebbe un sorriso ironico.
«Avete trovato il vostro da fare, Harrigton!»
L’uomo dai molti gioielli proclamò in fretta, con una leggera aria di trionfo, alzandosi sui talloni:
«Ho l’autorizzazione del Questore, cavaliere. Il signor conte l’ha chiesta ed ottenuta!»
«È esatto,» confermò il conte Marchionni. «Ho creduto valermi dell’opera del signor Harrington, non perché non avessi fiducia nell’intelligenza e nella capacità dei funzionari di Pubblica Sicurezza, ma perché penso che un detective privato abbia maggiore libertà di movimenti e possa riuscire là dove essi falliscono. Ho vissuto molto in Inghilterra e mi sono abituato a considerare la professione del detective privato come necessaria e indispensabile.»
Fece una pausa, quasi attendesse che il commissario gli muovesse qualche obiezione. Ma De Vincenzi tacque e lui continuò:
«Il Questore ha cercato di comprendere le mie ragioni e ha soprattutto compreso quanto sia vitale per me conoscere la verità, tutta la verità. Soltanto in tal modo potrò rendere immune da calunnie e da falsi apprezzamenti l’onore di mia figlia…»
Giannetto, che fino a quel momento era rimasto muto e immobile in un angolo della camera, fece un passo avanti. Il suo volto, se era possibile, diventò più pallido ancora. Per un attimo gli occhi gli brillarono.
Ma De Vincenzi, si frappose con un movimento rapido fra lui e Marchionni. Temeva che Aurigi potesse abbandonarsi a qualche eccesso e disse in fretta al conte:
«Non capisco, signor conte, in che cosa possa venire messo in causa, sia pure lontanamente, l’onore di sua figlia…»
«Fino a ieri, mia figlia era la fidanzata dell’assassino.»
A quella parola anche De Vincenzi ebbe un sussulto visibile; e la voce di Aurigi risuonò sorda e spasimante:
«Lei non può credere che io sia un assassino!»
Marchionni si voltò lentamente verso quella voce.
«Io non credo nulla! Constato. Cerco di sapere sino in fondo. Giudico. Altri deve condannare.»
De Vincenzi intervenne con autorità:
«Mi permetta, conte…» e fece un gesto con la mano, quasi per impedirgli materialmente di continuare. Poi si volse verso il fondo e chiamò Cruni: «Venite qui, brigadiere.»
Cruni avanzò nella stanza e il commissario gli indicò Giannetto.
«Il signor Aurigi è in istato di arresto. Ve lo affido, Cruni. Conducetelo di là, nella camera da pranzo, in attesa di tradurlo a San Fedele. Egli non deve parlare con nessuno. Chiudete le porte e non vi separate da lui, per nessun motivo, neppure un istante.»
Giannetto aveva ascoltate quelle parole con indifferenza. Ricadde nel suo stato di torpore e non oppose la più piccola resistenza, quando il brigadiere gli si avvicinò e gli disse con cortesia:
«Venga con me…»
Tutti e due scomparvero nella sala da pranzo, della quale Cruni richiuse la porta.
La scena si era svolta in pochi secondi. Il conte aveva assistito ad essa, senza dar segno di meraviglia. Il silenzio, che seguì fu brevissimo. Con perfetta naturalezza di movimenti, De Vincenzi offrì una sedia a Marchionni:
«Vuol sedere, signor conte? Dal momento che lei, venendo qui, è andato incontro al mio desiderio, le chiedo un colloquio.»
«Sono qui anche per questo,» rispose il conte, sedendosi.
De Vincenzi si voltò verso Harrington.
«Credo che v’interesserà dare un’occhiata al luogo del delitto, Harrington. Giacché siete stato autorizzato a seguire l’inchiesta, ve lo permetto. Bene inteso, il giudice istruttore si regolerà come vorrà nei vostri riguardi. A me, per ora, voi non date alcun fastidio.»
Subito il detective assunse un’aria cordialmente confidenziale.
«Spero, anzi, di poterle dare qualche aiuto, cavaliere. Conosco qualcosa di più di quanto hanno pubblicato i giornali stamane e posso dirle che ho già una teoria.»
«Una teoria, eh, Harrington?» disse De Vincenzi, con un lieve sorriso ironico. «Bella cosa avere una teoria!… Sappiate che, invece, io non l’ho una teoria!»
L’altro non volle afferrare l’ironia del commissario.
«Oh! basta far lavorare le cellule grigie del proprio cervello!»
«Già!» fece De Vincenzi, ma troncò subito, con freddezza: «Ebbene, fatele lavorare, Harrington. È proprio questo il momento!»
Si diresse verso la porta del salottino e fece cenno al detective di seguirlo. Quando fu sulla soglia, indicò la camera e disse:
«Ecco, in questo salotto è