Joey Gianvincenzi

Le Regole Del Paradiso


Скачать книгу

patito i postumi di quel trauma così violento; ogni frase sarebbe stata macchiata dalla paura che le aleggiava in corpo come un demonio impazzito che cercava di tapparle la bocca; ogni discorso sostenuto sarebbe stato percepito solo come un argomento da trattare per non andare a finire a parlare di quello che aveva fatto al night, sul cubo, conciata in una maniera talmente disdicevole da considerarla blasfema. Gli occhi che le strusciavano addosso, le bocche di alcuni vecchi che sbavavano al solo pensiero erotico di passare qualche ora in compagnia della giovane dal viso angelico, gli occhi chiari e la pelle liscia profumata di una giovinezza che, per loro, non era altro che un irraggiungibile ricordo lontano a cui facevano riferimento quando volevano rivivere l’epoca in cui era il loro turno: il turno per conquistare obiettivi e donne, l’epoca in cui si era in diritto di aspettare qualsiasi treno perché, effettivamente, era la loro epoca. Stare seduti sulle comode poltrone del locale di Gary e fantasticare di baciare Jane, toccarla e sentirsela addosso sarebbe stato il loro viaggio nel tempo ormai andato, ormai scaduto: non sarebbe esistito più il dislivello mozzafiato di età che galoppava tra di loro, ma l’avrebbero interpretato solo come un’indimenticabile nottata al night, un sabato sera alternativo, privo di monotonia, da ricordare per quello che gli rimaneva da vivere come l’ultimo grande colpo da maestri del piacere sensuale, nonostante le rughe, nonostante le ossa e i muscoli fradici, l’artrite, la dentiera.

      Non sembrava esistere nessun comportamento mentale, fisico o spirituale che avrebbe potuto alleviare quel marcio che la ragazza sentiva crescere da dentro, che colava dalle pareti della sua dignità e che tutti, solo guardandola negli occhi, avrebbero notato nitidamente. Abbassare la testa facendo correre lo sguardo all’oscuro del mondo non sarebbe servito se non ad accentuare un disagio che nascondeva, in sé, il terribile segreto. Ascoltando i professori spiegare alcuni concetti, o interagire con una commessa di un negozio, stando in silenzio, non riusciva ad abbassare il volume mentale di quella musica che, il sabato precedente, aveva fatto da colonna sonora al suo primo spogliarello pubblico. Non riuscì a concludere niente nemmeno l’amico psicologo di Jolie, al quale venne presentata dalla colf stessa: ebbero una conversazione di mezz’ora, ma la giovane non disse nemmeno una parola. Vedeva ancora un fiume di mani in aria che applaudivano, i fischi acuti, gli occhi spalancati quando Frenny aveva lanciato alla folla imbizzarrita il suo top, le mani dei vecchi che entravano nei pantaloni e si agitavano. Gli spiriti eccitati sembravano concreti, visibili: li indossavano come terrificanti maschere di carnevale.

      Entrare in casa o a scuola rappresentava la grande sfida giornaliera dalla quale si aspettava il peggio: tra i banchi del liceo c’era Ashley che ogni mattina, puntuale come un ghepardo nell’ora in cui la famiglia di gazzelle si riunisce amorevolmente, si materializzava con la mano protesa e l’aria di chi dice: non stai forse dimenticando qualcosa?

      A casa c’era la causa di ogni suo problema: la bestia. Pranzare, cenare, condividere la propria vita con la persona che le aveva causato quei danni psicologici non era una cosa da niente. Non poteva che ricordarlo mentre faceva irruzione nel magazzino dove l’operaio di colore stava consumando lo stupro: la sua indifferenza, gli ordini di sbrigarsi a svolgere le “semplici faccende” il cubo, la musica a tutto volume, le botte nello studio, il sangue, il vecchio tedesco con cui parlava di lei e del suo corpo mercificato.

      â€œPresto sarai di Hoffmann e non ti opporrai” era solito dire durante una delle tante liti scoppiate per un nonnulla. Poi aggiungeva: “Ovviamente appena il tuo bel visino tornerà a essere splendido e lucente!”

      Effettivamente in volto aveva ancora lividi evidenti, l’occhio pesto, lo zigomo arrossato e la guancia gonfia.

      Quel pomeriggio si rannicchiò sul letto e tirò a sé le ginocchia, stringendole al petto. Si girò dalla parte sinistra e, una volta incrociato lo sguardo della madre, s’impietrì. La donna era stata fotografata molti anni prima di quel pomeriggio malinconico e, ogni volta che Jane incastrava gli occhi nei suoi, assaporava la struggente sensazione di essere in balia di angeli e demoni in eterna lotta tra loro, senza nessun arbitro che decretasse una vittoria, un pareggio, una sconfitta.

      * * *

      Quella mattina, quando Jane aprì gli occhi, già sapeva che sarebbe stata una pessima giornata; una data del genere doveva essere festeggiata felicemente in famiglia, con la voglia irrefrenabile di aprire i regali che tuttavia avrebbe dovuto essere controllata fino allo scoccare della mezzanotte, così da farlo tutti insieme, intorno a un grande tavolo pieno di dolci. Si sarebbe dovuta respirare un’aria speciale, la si doveva vivere con il sorriso. Quando si svegliò poté solo accorgersi che in casa non c’era nessuno. Non sapeva dove fossero andati fino a che lesse il biglietto scritto frettolosamente dal padre: ‘Torniamo il 26’.

      Non c’era nessun motivo per cui rimanere stupiti. Era il minimo che potevano fare. Dentro sentì solo aumentare il gelo che copriva il suo cuore; ancora con il bigliettino in mano non poté far a meno di fissarlo e accertarsi di aver letto bene. Non c’era nessun dubbio, la calligrafia parlava chiaro: quel giorno sarebbe rimasta da sola.

      Immersa completamente nella vasca da bagno piena d’acqua bollente, cercò di rilassarsi e pensare sempre meno a tutti quei problemi.

      Jane trascorse tutta la giornata a ripassare capitoli che aveva imparato già alla perfezione. Non sapeva che altro fare visto che, di solito, la Vigilia di Natale, non si ripete assiduamente l’etica di Platone. Invece, quell’anno, andò così: invece di telefonare ai parenti per augurargli buone feste, spiegava a voce alta ogni passaggio e ogni concetto proprio con la scioltezza che avrebbero avuto due amiche nel parlare di shopping. Amiche. Quel giorno lo avrebbe dovuto passare a casa di qualcuno che le voleva bene, che la considerava più che la secchiona di turno. Si era arresa davanti a quel fatto: la sua bravura le si rivoltava contro ogni volta. Non l’avrebbe chiamata nessuno per farsi una passeggiata per le strade di una meravigliosa Seattle addobbata di luminarie natalizie. Dalla finestra della sua camera vedeva brillare la città come un gioiellino nella più lussuosa delle collane.

      L’ora di cena era passata da un pezzo, aveva mangiato solo un po’ d’insalata. Fuori iniziò a nevicare.

      Il grande orologio in soggiorno la avvertiva che mancavano dieci minuti a mezzanotte. Corse in camera sua, prese dall’armadio un grande piumone, una coperta, un cuscino e la fotografia. Tornò di nuovo in soggiorno, stese il piumone ai piedi del grande albero di Natale che aveva fatto la colf qualche giorno prima, ci si distese sopra poggiando la testa sul cuscino e si infilò sotto la coperta. Tra le mani aveva la fotografia della madre.

      Mancavano cinque minuti a mezzanotte.

      Con la manica del pigiama lucidò accuratamente la foto per osservare meglio il soggetto; quel soggetto ormai che sognava la notte, desiderava di giorno e si immaginava di continuo. Quel soggetto che sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Quel soggetto che diventò tutto a un tratto appannato a causa delle lacrime che prendevano il pieno controllo degli occhi di Jane. Lacrime che non perdonavano, ma scendevano, inesorabili, per urlare una realtà troppo dura ma vera come il suo senso d’infelicità, della voglia che aveva di scappare da tutto e vera quanto la voglia di avere sua madre vicino, in quel momento.

      Mancava un minuto a mezzanotte.

      Jane si addormentò sotto l’albero pieno di luci colorate con l’immagine nella mente di lei e sua madre abbracciate.

      Era mezzanotte.

      Il mondo finalmente scartava i regali tanto attesi.

      * * *

      Più che l’essere rimasta a casa da sola, in ore che avrebbero dovuto essere spensierate ed esenti da qualsiasi problema legato alla solitudine, a rattristare Jane erano le scene che si svolgevano sotto casa sua, nel parco che, oltre a essere il più grande della città, era considerato anche il più bello.

      Passò parte del pomeriggio in piedi, con una tazza di cioccolato bollente tra le mani infreddolite e con gli occhi che scrutavano varie zone del parco come avrebbe fatto qualcuno troppo curioso con un binocolo dalla