Joey Gianvincenzi

Le Regole Del Paradiso


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e parenti per passare insieme il pomeriggio o fare una qualsiasi cosa divertente.

      In quel momento un bambino cadde violentemente a terra durante una partita a calcio e Jane ebbe un sussulto.

      Spostò gli occhi poi su un altro gruppetto di bambini che giocava a quello che sembrava essere il classico guardie e ladri: ce n’era uno tra questi che teneva un cappello da sceriffo in testa e teneva in mano un ciocco di legno un po’ arcuato in avanti come fosse una pistola. Si aggirava per le viuzze del parco con fare vigile e diffidente, passi decisi e felpati, lanciava occhiate veloci e fuggevoli in ogni angolo pronto a scovare i suoi coetanei, improvvisamente trasformati in famosi ladri pericolosi per l’umanità. Il bambino si infiltrava tra gruppi di mamme, tra gli altri bambini che non erano stati inclusi nella missione, si arrampicava sulle giostre e li cercava all’interno degli scivoli a tubo, magari qualcuno si era nascosto lì dentro e non sarebbe uscito fino a rimanere l’ultimo ladro in circolazione, vincendo così il turno. Quando poi qualcuno usciva allo scoperto, il bambino poliziotto lo rincorreva a perdifiato puntandogli la fantomatica pistola e fingendo di sparare colpi a raffica, necessari per bloccare la corsa fuggiasca del nemico. L’altro bambino però, il piccolo ladruncolo, fu così rapido nel correre che fu il più veloce tra i due a raggiungere la base scelta o come zona d’arrivo per il poliziotto che aveva arrestato il ladro o come meta da raggiungere dai ladri per essere immuni alla giustizia.

      Un altro gruppo di bambine giocava con alcune bambole e questo le ricordò che non aveva mai partecipato a un divertimento simile.

      Andare avanti con quel vuoto incolmabile dentro che si portava ormai da anni rappresentava la sua guerra più dura. Non aveva conosciuto le emozioni più semplici, non aveva acquisito la mente di una ragazza cresciuta, maturata, ma aveva una specie di grande rimpianto che voleva in ogni modo, senza riuscirci, far sparire cancellando di conseguenza alcuni tratti, più tristi che dolorosi, della sua infanzia ormai perduta.

      Spingersi oltre fino a sfiorare il pensiero di ricevere un gesto di affetto era una specie di visione irraggiungibile, una fantasia malata, un’immaginazione drogata. Da che aveva memoria, Jane non ricordava nessun gesto di affetto nei suoi confronti da parte della bestia. I rari discorsi che si consumavano a pranzo o a cena non andavano spaziando in certe tematiche interessanti che avrebbero potuto raccogliere le osservazioni di tutti, confrontandole, elogiandole, criticandole, così come non venivano mai trattate certe problematiche che potevano andare dalla giornata al liceo, fino a parlare di qualcosa di più intimo, addirittura.

      Non aveva capacità di relazionarsi all’interno di qualsiasi gruppo e non aveva il cuore pieno di motivi per vivere, per andare avanti, per reagire e combattere: si batteva semplicemente per cause naturali.

      Del cuore sapeva che nell’arco di ventiquattro ore ci passavano quattromila litri di sangue, che in settant’anni di vita, in media, un cuore si contraeva e si rilassava due miliardi e mezzo di volte pompando cinque litri di sangue attraverso circa novantasei mila chilometri di vasi sanguigni, ma non sapeva cosa fosse un tuffo al cuore; poteva spiegare nei minimi dettagli medici un infarto, dato che lo aveva approfondito a seguito di alcune ricerche, ma non aveva mai avvertito il batticuore davanti a una persona di cui era innamorata.

      Non sapeva che quell’organo così complesso quanto indispensabile potesse contenere infinite emozioni e che, oltre a tenerci vivi, avesse anche il potere di essere la cassaforte più sicura del mondo, impossibile da violare: ci si potevano riporre ricordi indimenticabili, frasi e parole pronunciate da certe persone, gioie conquistate, l’immagine del primo bacio, la prima volta che ci siamo spogliati davanti a qualcuno che amavamo. Jane Madison non aveva mai usato quel muscolo involontario per amare, aveva imparato a usare solo la fredda ragione che, con le sue indiscutibili risposte, riusciva a risolvere brillantemente ogni tipo di problema. Il cervello riusciva a rassicurarla, a tenerla al sicuro grazie alle teorie, ai ragionamenti, a un’indistruttibile logica che spesso non aveva solide basi, ma serviva giusto per una serenità mentale forte abbastanza da farle accantonare la tristezza gridata dal cuore. Per ogni domanda che si poneva aveva trovato risposte che, fino a quel periodo, le erano sempre andate bene, ma crescendo le cose stavano cambiando repentinamente e non era più tanto semplice accontentare l’organo che, fino ad allora, era rimasto puramente anatomico.

      * * *

      Aprire gli occhi quella mattina sarebbe stato completamente diverso dalle altre volte.

      Jane rimase qualche minuto sdraiata nel letto con un gran vortice di pensieri che le turbinò a gran velocità, senza sosta.

      Ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina prima di iniziare la giornata, aveva l’abitudine, o meglio, l’estrema necessità di incrociare lo sguardo di sua madre che era stata immortalata in quella che pareva una delle sue migliori espressioni. Era la stessa fotografia che, il giorno della vigilia di Natale, tenne stretta al petto, come se avesse voluto abbracciarla davvero.

      Quella mattina, come se lo sguardo della madre avesse avuto lo strabiliante potere di leggere qualsiasi segreto della figlia attraverso il consueto e abitudinario sguardo mattutino, la ragazza decise di fare un’eccezione, la sola della sua vita, e non fissare a lungo gli occhi che all’improvviso sembravano cambiati: parevano strillare di non realizzare nella maniera più assoluta l’unico e ultimo programma della giornata.

      Per non sentire più l’incombente pesantezza di quell’impressione, Jane si alzò di scatto dal letto e si fiondò in bagno per farsi una doccia. Con lo scrosciare dell’acqua che puntò al centro della sua schiena, nel premere il flacone del bagnoschiuma, si accorse che la mano che ne avrebbe dovuto ricevere il contenuto per poi spalmarlo velocemente sul corpo stava tremando.

      Una volta pronta si diresse verso il ripostiglio in cui Jolie era solita tenere tutti gli attrezzi che le servivano per la pulizia della casa.

      Accese la luce, si accucciò fino a raggiungere, di fianco alla lunga scarpiera, la cassetta di acciaio nella quale Gary aveva riposto decine di cacciaviti, un trapano, centinaia di chiodi. La ragazza frugò tra i vari scompartimenti della cassetta e trovò quello che stava cercando.

      Infilò l’oggetto in tasca e uscì di casa senza prendere le chiavi: non sarebbero servite.

      * * *

      Il parco era semideserto ma, se avesse aspettato anche solo un’altra ora, lo avrebbe visto popolato da decine di bambini che, correndo a destra e sinistra, le avrebbero fatto saltare il piano, o meglio, la soluzione finale.

      Jane si addentrò nel cuore del parco cercando il luogo più isolato, per avere la certezza che nessuno l’avrebbe vista, così, nel giro di pochissimi minuti, raggiunse l’angolo più remoto.

      Come sotto la doccia, anche in quel momento le mani presero a tremare, soprattutto la destra, quella che avrebbe dovuto operare con una lucidità e una freddezza impeccabili.

      Era arrivato il momento.

      Tutti quei giorni bui, in fila, come peccatori nella più vergognosa delle processioni, le si erano presentati alla mente e le stavano dando la forza necessaria per compiere l’ultimo atto, la grande uscita dalla scena miserevole e insopportabile che viveva da sempre. Diede un ultimo sguardo in giro, posò gli occhi sulla strada trafficata, su alcuni passanti che sfrecciavano sulle strisce pedonali, poi portò lo sguardo all’interno del parco e vide gli alberi, le foglie. Era quel blocco immenso nel petto che non le consentiva di apprezzare la bellezza di ciò che la circondava, così come gli occhi spenti, il cervello attanagliato da una routine durata anni, lo spirito atterrito, la vergogna e l’umiliazione che avevano preso il totale controllo della coscienza e del rispetto che aveva di se stessa.

      Infilò la mano nella tasca del suo vecchio giacchetto e tirò fuori il taglierino che il padre non aveva mai utilizzato.

      Quante volte si era addormentata piangendo, infelice della propria vita, desiderosa di una svolta che sembrava non arrivare mai; era pesante quell’attesa, più illusoria che pretenziosa, più stancante che speranzosa.