dei lanaioli) e quelli della cittadinanza nel suo complesso. Ma non sempre era così. Ad esempio, l’esenzione per gli artigiani immigrati dal pagamento della tassa di immatricolazione all’Arte non era vista di buon occhio da chi di tale corporazione faceva parte. Il divieto di importazione di tessuti forestieri poteva danneggiare altri settori economici della città per il mancato arrivo di mercanti che in genere, venduti i panni, acquistavano altre merci.65
In genere le magistrature cittadine non intervenivano in merito ai rapporti tra lanaioli e manodopera sottoposta per quanto riguardava l’organizzazione del processo produttivo con i vari obblighi e divieti: le competenze e il potere di intervento spettavano ai vertici dell’Arte ed erano regolati dallo statuto della corporazione. Così assai raramente gli statuti comunali fissano i salari massimi del settore laniero, a differenza di quanto accadeva per i lavoratori a giornata impiegati nell’edilizia e in agricoltura; questo anche nel periodo della ‘crisi’ del Trecento, quando il forte calo demografico e la conseguente scarsità di manodopera provocarono un rialzo generalizzato delle retribuzioni e l’intervento delle autorità pubbliche che miravano a contenerne l’aumento.66 Si aggiunga che i rapporti di lavoro a cottimo, del tutto prevalenti nella manifattura tessile, erano più difficilmente regolamentabili rispetto ai salari pagati a giornata.
Non mancano tuttavia –anche se abbastanza rari– provvedimenti a favore dei lavoratori sottoposti, in contrasto con gli interessi dei lanaioli. Vanno in questa direzione gli interventi che proibivano ai lanaioli di retribuire i lavoranti in natura, come accadde nel 1462 a Vicenza quando il Consiglio cittadino accolse la richiesta avanzata da tante povere persone «dietim viventium ex dicto misterio», ovvero filatori, scardassieri, pettinatori, tessitori, che chiedevano di essere pagati esclusivamente in denaro, e non con capi di abbigliamento, tele, vino, frumento e altre merci, per altro sopravvalutate.67
Altri provvedimenti che in qualche modo venivano incontro alle difficoltà che affliggevano i lavoratori della lana –e il popolo minuto in genere– riguardavano la moratoria sui piccoli debiti. La manodopera sottoposta versava di continuo in una condizione di indebitamento, come attestano con ricchezza di particolari le fonti pubbliche (fiscali e giudiziarie)68 e la contabilità privata. Ricordiamo ad esempio che il banco ebraico fiorentino dei Quattro Pavoni negli anni Settanta del ‘400 elargì, nell’arco di appena 17 mesi, quasi 40 mila prestiti su pegno, in gran parte per cifre modeste: da qualche decina di soldi fino a 5-10 lire. La clientela del banco era costituita in netta prevalenza da modesti artigiani e da lavoratori delle manifatture tessili cittadine, soprattutto della lana: questi ultimi rappresentavano quasi il 20 % del totale degli indebitati; ovvero 7-8 mila nell’arco del periodo considerato. Il pegno consisteva nel 75 % dei casi in capi di abbigliamento, in genere di modesto valore.69
Ebbene in periodi di congiuntura negativa, effetto del forte rincaro del prezzo del grano o delle difficoltà attraversate dalla manifattura tessile, non era raro che le città approvassero una moratoria sui piccoli debiti, per impedire che i debitori insolventi fossero incarcerati o ulteriormente vessati.70 Tale provvedimento si aggiungeva ad altri, assai più gravosi per l’erario, quali l’acquisto di grosse partite di grano forestiero, che era poi venduto in città a prezzo politico, o l’istituzione di forni pubblici, che distribuivano il pane ai meno abbienti. I governi erano ben consapevoli di quanto le carestie fossero pericolose per le città: una massa di gente affamata, che non aveva i mezzi per comprare il necessario per vivere rappresentava un pericolo per il regime e poteva essere strumentalizzata dagli oppositori interni.71 Le stesse Arti, in particolare quella della lana, erano chiamate a corrispondere finanziamenti al Comune per acquistare grano in periodi di difficoltà.72
La prosperità dell’arte della lana costituiva dunque una preoccupazione costante dei governi per gli effetti benefici che assicurava alla città e ai suoi abitanti: dai ricchi mercanti-imprenditori, ai lanaioli titolari di bottega sino al livello sociale più basso, quello dei lavoratori sottoposti.73 Non che le classi superiori avessero molta simpatia per questi ultimi: disprezzo e timore erano i sentimenti prevalenti soprattutto in occasione di disordini e di conflitti sociali;74 solo tra i religiosi, in particolare all’interno degli Ordini mendicanti, si incontra un atteggiamento di umana comprensione dei loro bisogni.75 Ma era interesse dei governi cittadini che il numero degli indigenti non si allargasse, restasse limitato a quanti non erano in grado di lavorare (vecchi, malati, mutilati, vedove, orfani, ecc.), oggetto dell’attività assistenziale di ospedali e confraternite. Nella sua Summa theologica Antonino Pierozzi (sant’Antonino), vescovo di Firenze, invitava a metà ‘400 le autorità secolari a preoccuparsi «ut cives non deducantur in pauperiem».76 Una manifattura laniera in salute impediva che la fascia dei senza lavoro, e quindi dell’indigenza, si allargasse, che il numero dei poveri crescesse ulteriormente con le conseguenze che ne potevano derivare per il «pacifico e tranquillo stato» della città. Assicurare il lavoro, e quindi il necessario per vivere, a una componente ampia della popolazione rappresentava una sorta di intervento preventivo. In una visione del bene comune, o publica utilitas, che aveva come punti di riferimento la pace, la giustizia, la prosperità, era indispensabile riuscire a sopire e a controllare le tensioni sociali.77 I provvedimenti a favore dell’arte della lana, che andavano direttamente o indirettamente a vantaggio della gran massa di lavoratori sottoposti, rappresentavano una forma di protezione della parte più fragile della popolazione urbana prima che si facesse ricorso alla vera e propria beneficienza. È significativo che nel già ricordato provvedimento vicentino del 1462 il pagamento del salario in natura da parte dei lanaioli, che accentuava il disagio dei lavoratori sottoposti, venisse definito «contra opus charitatis».78 Era in sostanza lo stesso giudizio che veniva espresso, più o meno nel medesimo torno di tempo, da Bernardino da Siena e da Antonino Pierozzi quando denunciavano le frodi dei lanaioli a danno dei sottoposti, pagati appunto in natura e non in moneta.79
La concezione del lavoro come prima forma di lotta contro la povertà è dunque già presente nelle società urbane dell’Italia bassomedievale: proseguirà poi –anche se non sempre in modo lineare– in età moderna e, in forme più articolate e consapevoli, nei secoli a noi più vicini.80
Proprio in questo i centri della Penisola sembrano distinguersi dalle altre città dell’Occidente medievale, dove sicuramente era forte la consapevolezza di quanto fosse importante la presenza di una grande manifattura laniera,81 ma non risulta altrettanto presente nella visione degli organi di governo –o quanto meno non viene espressa in termini così espliciti– la funzione sociale che essa era in grado di svolgere.
1 Passo citato in Ph. Jones, «La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV», in Storia d’Italia, 2, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, 1974, pp. 1468-1819, a p. 1728. Concetti simili si incontrano nella documentazione