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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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di comportamenti sociali come mode cortigiane e ne identificava, cosí, la paternità nei costumi d’una corte allogena, estranea al mos maiorum napoletano. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una vera e propria palinodia con doppia partitura, politica e moralistica, che pare voler rinnegare un decennio e piú di lodi e celebrazioni per Alfonso composte dal poeta, a partire dal Triumphus Alfonsi regis, il poemetto con cui l’umanista si presentò al Magnanimo ottenendone il favore.45 Un passo del secondo canto proprio del Triumphus ci offre un significativo termine di paragone per tale palinodia (vv. 94–120):

      Sed tua Parthenope regum certissima sedes

      Quæ tibi Romanos dederit servata triumphos,

      Hanc cecinit regis memorandam in sæcula laudem:

      ‹Rex, decus Hesperiæ, genus alto e sanguine regum

      Innumeros populos et regna ingentia centum

      Qui subigis, proavos imitatus et alta parentum

      Nomina, quo incolumi nullum sperare timorem

      Possumus, o Siculi, spes tandem et gloria, salve.

      Salve iterum dive Cæsar, salve omnibus une,

      Une tamen dilecte Deis. Tibi sidera et auster

      Militet æthereus, tua Mars tibi vota secundet,

      Fortunetque armatus iter seu lætus ad Indos,

      Ad Thetidis seu pergis aquas gelidosque Triones,

      Seu Libyem irrigui terres trepida ostia Nili,

      ut tua Cæsareis veneremur gesta triumphis.

      Te mage nemo pius, bello nec clarior; adde

      Iustitiam sanctamque fidem et moderamina rerum.

      Dicam equidem in medium felicia tempora, dicam

      Felicem hanc patriam et qui te sub Cæsare vivunt.

      Te duce, parta quies populis, te pacis amatæ

      Auctoremque ferunt; duce te, virtusque pudorque

      Iam subeunt; periere simul scelus omne nefasque

      Et scelerum damnata fides, periere tyramni,

      Et, duce te, fulvi redierunt sæcla metalli.

      Tu pacis fundator ades, nisi numina fallant,

      Læta vetus veteres faciet tibi Roma triumphos

      Altaque Cæsareas statuent Capitolia pompas›.46

      Il poeta vi poneva sulla scena la città di Napoli che, personificata, prendeva la parola per rivolgere al vincitore Alfonso una lunga e accorata apostrofe celebrativa all’interno del trionfo allestito per il re conquistatore. I vv. 96–120 del Triumphus celebravano infatti Alfonso non solo quale re di stirpe essa stessa regale e guerriero vittorioso, ma anche quale pacis fundator, secondo uno dei motivi piú fortunati del mito del Magnanimo, quello del re pacificatore e garante di pace.47 L’iconografia alfonsina acquisí a tal punto il motivo che nelle medaglie coniate dal Pisanello il ritratto d’Alfonso è accompagnato dall’epigrafe Triumphator et pacificus; nelle iscrizioni dell’arco di trionfo Alfonso volle che fosse posta l’epigrafe «Alphonsus rex Hispanus, Siculus, Italicus, pius, clemens, invictus»; e nella pagina iniziale splendidamente miniata del codice 831 della fiorentina Biblioteca Riccardiana contenente i Gesta di Bartolomeo Facio, campeggia affianco alla figura di un guerriero su un cavallo bardato di rosso la scritta «Alfonsus rex pacis».48 All’esaltazione del valore guerriero del Magnanimo il poeta fa seguire nel Triumphus – ancora per bocca di Parthenope – il catalogo delle virtú di pietas, iustitia, fides, temperantia che il re incarna, annunciando poi i tempi nuovi che la città s’accingeva a vivere sotto la guida del re e della sua dinastia come novella e tà dell’oro (v. 116: Et duce te fulvi redierunt sæcla metalli), un’epoca di pace, priva di scelleratezze e di tirannie, secondo un topos particolarmente caro alla storiografia dinastica aragonese.49

      Di contro al preludio celebrativo contenuto nell’antico poemetto composto un decennio prima, tra il ’43 e il ’44, in questo componimento il poeta individua nello sfarzo della corte alfonsina l’esca della dissolutezza che aveva travolto senza limiti la città, in piena sintonia con la letteratura non allineata (188–196 UV→161–168 B):

      Emicat Astræi pennata per æthera virgo

      Virgoque virginibus it comitata tribus.

      Hei mihi, nulla sacris dantur sua dona poetis,

      Virtutum nulla præmia, nullus honos.

      Unus adulator socium ducit agmina et aures

      Principibus hic solus datque adimitque sacri.

      Non sic cognomen Tarquinum odere Quirites,

      nomen ut exorret nescia turna meum.

      Rispetto al mito della Napoli alfonsina il capovolgimento è perfetto: alla città sede di scuole d’antica tradizione sapienziale, alla capitale d’un regno governato da un principe che incarna un ben definito sistema di virtú sociali e politiche comprendente la clementia, la pietas e la iustitia, a quel locus d’edenica bellezza,50 il poeta oppone un luogo di disfacimento morale abbandonato dalla giustizia significata dalla dea Astrea, da ogni senso di religiosità e di rispetto significato dalle tre dee che formano il corteggio di Astrea, ovvero Fede, Speranza e Carità; insomma un luogo dove non c’è piú spazio per lo ius, per le arti liberali e, soprattutto, per la poesia. Al mito dell’età alfonsina come novella e tà dell’oro, come tempo di rinnovamento e di pace, il Pandoni contrappone un’attualità fatta da corrupti mores nei corrupta tempora d’un principe che ha osato volgere le armi contro la sua patria. E la contrapposizione, tutta giocata su di una precisa identità morale della città rinnegata e decaduta, trova nella figura d’Alfonso il suo fulcro, sicché al sovrano di cui la letteratura di corte vantava la provenienza spagnola, da una terra che aveva partorito a Roma una schiera d’illustri imperatori (di cui il Magnanimo sarebbe stato l’ultimo e piú eccelso rappresentante),51 il Pandoni oppone un principe straniero, sí, ma anche barbaro, che con i suoi costumi ha contaminato un’intera città;52 al sovrano connotato da una purezza quasi monacale dei costumi,53 il Pandoni contrappone il monarca d’una città dissoluta e in preda a devianti brame sessuali;54 al sovrano che si vuole l’incarnazione perfetta di un sistema di virtú comprendente fortitudo, clementia, iustitia e gravitas, protettore di artisti e poeti, giusta il mito costruito da Bartolomeo Facio nei Commentarii e da Antonio Panormita in quell’opera singolare e sfuggente che fu il De dictis et factis Alfonsi regis,55 il Pandoni sostituisce qui la figura di un principe aggressore (v. 188 UV→160 B: in patriam qui tulit arma meam), ma debole, in quanto assoggettato alla volontà di un adulatore che ne disserra e richiude a proprio piacimento le orecchie. La citazione dell’adulatore, poi, non è solo mera rievocazione letteraria della adulandi gens prudentissima di Giovenale 3, 86, ma anche rappresentazione icastica della realtà subita dall’umanista: l’adulatore subdolo la cui figura vien posta all’apice del fosco quadro di dissolutezza che coinvolge insieme corte e città va infatti identificato in Antonio Panormita, influente consigliere del Magnanimo e nemico giurato del Pandoni:56 l’incompatibilità tra i due che, determinata da radicali differenze di carattere, di gusti poetici, di schieramenti ‹politici›,57 si fa risalire persino al 1432–33, seppur intervallata da periodi d’apparente non belligeranza rese sempre tumultuose le loro relazioni.58

      Il disperato sfogo autobiografico si condensa poi in una nota sentenziosa di sapore liviano (cfr. Liv. 2, 2, 3), in cui il poeta dichiara che ormai a Napoli il suo nome è odiato piú di quanto fosse quello dei Tarquinii a Roma. Il doloroso addio a Napoli s’acquieta allora solo nella speranza d’esser accolto alla corte sforzesca e nella promessa finale di un canto (tipica prassi del Pandoni) che avrà a oggetto i fortia facta del duca (vv. 197–204 UV→169–176 B):

      Ergo vale, o præsul, divina