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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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      Hic sita sit coniux dignissima vate marito

      hic soboles quanta est; hic sua posteritas.20

      In un altro epigramma, poi, il poeta confermava che la dolce Parthenope lo aveva generato dalla stirpe dei Pandoni, non senza confessarvi, ai vv. 3–6, probabilmente in risposta a chi lo credeva veramente nato a Roma,21 di non essere romano per nascita e di non potersi, perciò, dire discendente di Enea:

      Non sum, confiteor, Romana natus in urbe

      nec pater Æneas sanguinis auctor erit;

      sed me Pandonio peperit de sanguine dulcis

      Parthenope, patrio virgo sepulta solo.22

      Dedicato al cardinal Prospero Colonna,23 per lunghezza, contenuti e varietà d’intonazione l’epigramma proemiale esibisce una caratteristica Gattungsmischung: l’autobiografia nel solco della poesia esilica di Ovidio, la satira moraleggiante d’intonazione patetica derivata da Giovenale, l’ekphrasis erudita alimentata da interessi antiquarî specifici e attualmente oggetto di particolare attenzione da parte degli studiosi dell’umanista.24 Il poeta motiva (nei versi 173–196 UV=145–168 B) la propria partenza da Napoli lasciando intendere d’aver preso una decisione non facile, costretto da nemici che gli avevan reso la vita impossibile nella corte napoletana nonché dall’imbarbarimento suscitato dai costumi importati da príncipi stranieri, estranei all’austero mos maiorum della nobiltà napoletana; e annuncia, inoltre, il progetto di trasferirsi presso la corte del duca Sforza (vv. 1–10 UVB):

      Ibit ad Insubrum superatis fluctibus urbem,

      Ibit ad Anguigerum Musa beata ducem.

      Nec sine te tumeant pictæ data vela carinæ,

      o decus, o sacræ relligionis honor.25

      Non tamen incipiam divina a prole tuorum

      Nec quantum volites docta per ora virum:

      Ad mea si quando spirabunt carmina Musæ,

      cantabo generis nomen et arma tui.

      Namque ubi Phœbeo fuerim percussus œstro,

      Gaudebit tanti nominis auctor avus.

      Nel congedarsi dal cardinal Colonna, membro della famiglia illustre e potente cui s’era legato sin dagli anni della formazione romana,26 il poeta saluta Roma, sua seconda patria, descritta passo passo in una mappa di antiquitates connotanti la città, care insieme a lui e al destinatario del carme (vv. 15–30 UVB):27

      Destituo septem collis urbemque Quirinam

      Et qui Tarpeia summus ab arce tonas;

      Destituo delubra deum et laquearia tecti

      Ærea et æratas per loca sacra fores;

      Destituo insignes arcus mirasque figuras

      Et conscriptorum marmora viva patrum,

      Quin et cælatas mira novitate columnas,

      in quibus Augusti Cæsaris ossa cubant;

      Destituo celebris spectacula vana theatri

      quin etiam veterum monumenta virum,

      et vos, o Phidiæ divi opus aut Polycleti,

      marmora Salmatica [sic!] candidiora nive.

      Destituo Charites Pario de marmore nudas,

      par quibus est ætas, par quoque forma quibus;

      destituo tandem pompas clarosque triumphos

      et vetus imperium cæsareosque deos.

      Ci troviamo qui dinanzi a una vera e propria mappa di Roma che parte dall’ovvia celebrazione dei sette colli e del mito di fondazione della città stessa, e si snoda in un itinerario che illustra monumenti mirabili e connotanti il panorama dell’antica capitale, ma rende anche omaggio al cardinal Colonna, ai suoi interessi di collezionista e antiquario, alla storia della sua casata.28 Nell’ordine il poeta cita infatti anzitutto il tempio di Giove Capitolino (v. 16 UVB) attraverso l’apostrofe diretta al dio che tuona dall’alto della rocca Tarpea,29 e poi il piú importante luogo della città santa, la basilica di San Pietro, evocata attraverso preziose e allusive perifrasi nel distico 17–18 (destituo delubra deum et laquearia tecti / ærea et æratas per loca sacra fores, UVB).30 La visuale piú generale del distico successivo, 19–20 UVB, che apre uno squarcio sul panorama delle rovine della città attraverso le ovvie citazioni d’archi, statue e ritratti degli eroi della storia antica, inclina poi di nuovo nel distico successivo (vv. 21–22 UVB) al riferimento puntuale e dettagliato, attraverso la rievocazione della colonna di Traiano (Quin et celatas mira novitate columnas, / in quibus Augusti Cæsaris ossa cubant), resa ben identificabile dall’artificio della decorazione e dalla notizia che le ossa d’un imperatore vi riposano nel basamento.31 La citazione della colonna Traiana, ben inserita nel panorama d’antiquitates romane, è anche un omaggio al dedicatario, il cardinal Colonna, e alla sua potente famiglia, che secondo una tradizione proprio da quella colonna aveva tratto il nome, dal momento che la dimora storica della famiglia Colonna era situata sul Quirinale, in prossimità proprio dell’antico monumento.32 Emerge una peculiare tensione celebrativa, esplicita nei vv. 7–8 UVB nei quali il poeta promette per l’appunto un’opera in cui, se opportunamente ispirato dalle muse, canterà generis nomen et arma del cardinal Colonna. Nei due distici successivi (vv. 23–26 UVB) egli menziona ancora in termini allusivi un teatro famoso che senza troppi problemi può esser identificato nell’anfiteatro Flavio, e una scultura di marmo attribuibile a Fidia o a Policleto, di piú problematico riconoscimento.33 Nel distico successivo (vv. 27–28 UVB) l’autore dice addio anche a un monumento rappresentante le Cariti scolpite nude nel marmo pario, e ancora (vv. 29–30) alla storia stessa di Roma, ai suoi trionfi, all’antico potere e agli dèi protettori dei Cesari. Anche questo passo cela un’allusione celebrativa alla famiglia Colonna, e nello specifico al cardinal Prospero che, appassionato archeologo, nel palazzo romano di famiglia sul Quirinale, la cosiddetta Loggia dei Colonnesi,34 esponeva già alla metà del Quattrocento un’antica scultura raffigurante le Cariti rinvenuta nel giardino del palazzo stesso o forse in un sito archeologico sui colli Albani posseduto dalla famiglia.35

      La porzione successiva inclina a toni piú drammatici e sentimentali, e apre in maniera inattesa uno spaccato della vita familiare del poeta, che nelle tristi circostanze dell’addio evoca le figliolette e la devota e schiva moglie (vv. 31–36 UVB):

      Præterea dulces, patris pia pignora, natos

      Desero et uxoris ora pudica meæ

      Bisque duæ flebunt, me discedente, puellæ,

      quarumque maior nunc patris orat opem.

      Ut cito labenti succrescunt gramina rivo,

      sic adolet nostra virgo quaterna domo.

      La scena (segnata dall’unica similitudine che si registra nel carme) apre uno spiraglio sulla poco nota dimensione intima e domestica del Pandoni: le quattro figlie (quattro appunto, come si ricava anche da altri carmi, cui va aggiunto il figlio maschio Laurentius o Laurus, come il poeta alternativamente lo chiama)36 sono presentate dal poeta in lacrime, mentre la maggiore di esse reclama giustamente il conforto e la presenza del padre. La similitudine, che accosta le figlie all’erba che cresce veloce lungo il corso d’un ruscello, riconcinna con abilità il ricordo d’Ovidio, Amores 2, 16, 9–10 (versi non a caso autobiografici che rievocano Sulmona fertile di biade e di viti, ricca d’erbe sempre rinascenti per lo scorrere di ruscelli), e in realtà l’intero passo è tramato di tessere classiche che mostrano di prediligere Ovidio (cfr., per esempio, gramina rivo e Ov., Met. 9, 656; patris pia pignora natos e Ov., Fast. 3, 775: patres sua pignora natos), un auctor ben presente al Pandoni, anche nella sua produzione piú ardua, rappresentata per esempio dai Fasti di cui il poeta reclamava copie agli amici corrispondenti.37