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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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      Pavón Ramírez, Marta: Scheda n° 22, in: Alberti 2007, 221–224.

      Piccolomini, Enea Silvio: I commentarii. Edizione a cura di Luigi Totaro, Milano 1984.

      Prayer, Brenda: Il palazzo di messer Benedetto degli Alberti, e di Leon Battista, in: Alberti 2005, 89–92.

      Sestan, Ernesto: La famiglia nella società del Quattrocento, in: Convegno internazionale indetto nel V centenario di Leon Battista Alberti (Roma-Mantova-Firenze, 25–29 aprile 1972), Roma 1974, 235–258.

      Wulfram, Hartmut: Gedichte an einen uomo universale – Leon Battista Alberti in Cristoforo Landinos Xandra (B), in: Wolfgang Kofler / Anna Novokhatko (edd.): Cristoforo Landinos Xandra und die Transformationen römischer Liebesdichtung im Florenz des Quattrocento, Tübingen 2016, 1–18.

      Esilio e satira in un epigramma di Porcelio de’ Pandoni

      Antonietta Iacono (Napoli)

      Negli anni tra il 1455 ed il 1456 Porcelio de’ Pandoni1 progettò di mettere insieme una raccolta di Epigrammata in onore di Francesco Sforza, il principe che s’era mostrato disposto ad accoglierlo presso la sua corte per il tramite di due personaggi di gran prestigio, l’umanista Francesco Filelfo e il primo secretario ducale Cicco Simonetta. La raccolta, che ci è giunta in piú redazioni testualmente e strutturalmente diverse, è a me nota nella forma documentata da tre testimoni allestiti dall’autore stesso o sotto la sua supervisione e rilevanti per valore documentario:

      1. Berlin, Staatsbibliothek, Lat. qu. 390=B

      membr., sec. XV, 250×170mm, cc. I+52+I; miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Sul piatto anteriore nel margine superiore si legge la nota Cl(arissimi) poetæ laureati ab imp(eratore) Federico III. Porcelii Epigrammata sunt hæc anno D(omi)ni 1452 (apud) agrum Brixiensem. A c. 2r compare il titolo della raccolta: Epigrammata Porcelii poe / tæ laureati de summis / imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanen / sium ducis.2

      2. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 708=U

      membr., sec. XV, 237×165, cc. I+57+I, miniato in oro e colori; stemma sforzesco, tit. Porcelii poetæ laureati Epigrammata parva incipiunt; a c. 53r: Finit per Porcelium poetam laureatum / anno Domini 1456 seguito da un carme di dedica Illustrissimo Mediolanensium duci Francisco Sfortiæ (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope).3

      3. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 2857=V

      cart., sec. XV, 170×240, cc. IV+44+III; fascicolazione irregolare; a c. 44v si legge finit tertius (liber) 1456 dopo un carme, che qui non reca titolo (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope). Contiene una raccolta di Epigrammata del Pandoni, che mostra una sostanziale convergenza con il contenuto dell’Urb. Lat. 708. La data, 1456, che si legge alla c. 44v, ma anche a c. 1r defilata nel margine superiore destro, concorda con quella recata dal codice Urb. Lat. 708 (c. 53r).4

      Il codice berlinese è un manoscritto membranaceo con miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Il testo d’impianto è vergato in un’elegante umanistica ricorretta da altra mano identificata come quella del Pandoni. Nella pagina incipitaria (2r) il serto retto da due angeli appena abbozzati (con le sole ali colorate in oro) destinato ad accogliere lo stemma del dedicatario è stato lasciato vuoto: lo stemma mancante nella carta d’apertura svela che la progettata copia di dedica non fu ultimata e che non arrivò mai nelle mani di un destinatario. L’allestimento del codice subí un arresto e da pregevole copia di dedica esso si trasformò in copia di lavoro, nei cui margini e interlinea l’autore operò una fitta serie di correzioni e aggiunte testuali. Alla mia valutazione emerge che nell’originario progetto di allestimento (poi abbandonato) la ricorrenza delle capolettere miniate doveva scandire l’articolazione della raccolta posta dall’autore sotto il nome di Francesco Sforza in otto sezioni, ciascuna aperta da un carme proemiale indirizzato a un illustre destinatario.5 Il codice, per vicende personali del poeta e sotto l’incalzante opera di revisione esercitata sui testi, si trasformò in un contenitore di componimenti pensati e scritti per persone di rango e ambienti cortigiani, componimenti, però, anche soggetti a riutilizzi e riscritture funzionali agli interessi contingenti dell’autore stesso. La complessa stratificazione dell’opera di composizione e di revisione dei singoli carmi rende difficile la datazione del piano originario d’allestimento del codice, sicché, senza addentrarmi nella questione, mi limito a indicare la data ipotizzata per la sua messa a punto nel 1466, data dopo la quale il codice rimase nello scrittoio del Pandoni destinato a fornire via via testi da modificare per essere attualizzati e acconciati ai nuovi progetti di vita, di pubblico, di studio dell’umanista.6 Il codice berlinese, quindi, per l’operazione di revisione che l’autore effettua sui carmi è portatore d’una silloge strutturalmente instabile, perché soggetta a modifiche testuali mirate al riutilizzo di testi composti anche in tempi lontani.7

      Il codice Urb. Lat. 708 si presenta come una copia di dedica, sorvegliata dall’autore stesso, che interviene sul testo dei componimenti con una serie di accurate aggiunte, piccoli aggiustamenti e correzioni. Esso presenta, sí, molti punti di contatto col codice berlinese, ma ha una storia profondamente diversa. La nota anno Domini 1456 recata alla c. 53r lo colloca alla corte sforzesca, e il carme-epigrafe che si legge alle cc. 53r–v (lo stesso che si ritrova a c. 44v di V) pone la silloge di Epigrammata sotto il nome del duca e ne ribadisce il carattere di dono destinato all’illustre destinatario:

      Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis,

      Ausoniæ o sydus spesque decusque lyræ.

      Incipiam posthac, o nostro tempore Cæsar,

      Prælia et Anguigeri bella severa ducis

      Sfortigenasque acies et partos marte triumphos

      Sanguineo et vera gloria quanta tibi.

      Sic, dux et princeps, totum volitabis in orbem

      Vivet et æternum gloria vatis ope.

      In definitiva, quest’elegante libello dalla struttura coerente e monografica fino a c. 538 è il risultato dell’attività d’un poeta pienamente assorbito dall’ambiente milanese, da storie personali di speranza, di ricerca di mecenati, d’amicizie e, al solito, anche d’irriducibili ostilità.

      Il codice Vat. Lat. 2857 contiene una raccolta di Epigrammata che sembrerebbe scandita in tre libri, se si accolgono i suggerimenti delle notazioni (che a me sembrano autografe) che si leggono a c. 15v: finit primus liber; a c. 16r nel margine superiore: 2us lib(er) incipit; a c. 28v: liber tertius incipit; e a c. 44v: tertius <liber> finit. Denso di correzioni, espunzioni e varianti dovute anch’esse alla mano dell’autore il codice presenta una raccolta di Epigrammata imparentata con quella esibita dall’Urbinate.

      A Milano e alla corte degli Sforza il Pandoni dovette approdare nel 14569 e trovare un ambiente accogliente e due protettori – come già ricordato – nel segretario ducale, Cicco Simonetta, e nell’umanista Francesco Filelfo. Anche la permanenza milanese era, però, destinata a durare poco, dal 1456 all’aprile del 1459, e a esser turbata da inimicizie con gli intellettuali dell’entourage sforzesco. Infatti, una serie di carmi ingiuriosi rivolti contro Pier Candido Decembrio documenta l’odio viscerale del Pandoni nei confronti di quell’intellettuale potente e autorevole alla corte milanese, un odio alimentato forse per via indiretta dal Filelfo, notoriamente ostile a quell’umanista.10 E presto dovettero