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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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del congedo disperato: la specifica movenza dell’addio alla moglie e alle figlie risulta infatti, a mio avviso, ispirata da reminiscenze ovidiane, che restano sullo sfondo come apporti tematici (per esempio, Ov. Trist. 3, 3, 18; o 3, 4, 59 per il riferimento alla moglie), ma forniscono anche piú decisivi apporti (per esempio, Trist. 1, 3, 17 per l’addio alla moglie).38

      All’addio alla moglie e alle figlie39 segue il congedo dalla cerchia degli amici romani, che mostra quanto il Pandoni fosse inserito nei circoli culturali della città, e in particolare negli ambienti della curia pontificia (vv. 37–62 UVB):

      Quinetiam linquo tristes abiturus amicos,

      de quorum multis Cambius unus erat.

      Mirantur patres abitus interque loquuntur

      Deque patrum sermo plurimus ore cadit.

      Nemo tamen potuit tacitam cognoscere mentem,

      Nemo meæ potuit certior esse viæ.

      Consilium solus nosti et mea pectora solus,

      Melchior, o phidibus altera Musa meis.

      Me quamvis Tybris, me quamvis Martius ultro

      Sæpe vocet Campus et vocet urbis amor,

      Etsi nulla meam succendit gloria mentem,

      Ibit ad Anguigerum Musa vocata ducem.

      Iam tandem ad vates deflexit lumina divus

      Cæsar: adeste novem numina magna deæ!

      Imperat Augustus vivitque hoc tempore Cæsar:

      Surge, age, Musa, redi; surge, age, vive, Maro.

      Inde mihi venient animo vigilata sereno

      Carmina fatidico, carmina digna deo.

      Hic tuus, hic vates dicar, dignissima coniunx,

      Ne careas titulo nominis ipsa mei.

      Cessabunt luctus, suspiria nulla subibunt,

      Nulla tuas tinget roscida gutta genas.

      Hic stringunt lachrymas trepidæ, mea cura, puellæ,

      Nullaque de patris omine tristis erit.

      Accedo miræ laudis succensus amore

      Me trahit Anguigeri gloria summa ducis.

      Laddove di difficile identificazione risulta il Cambius pur citato con particolare enfasi, il Melchior del v. 44 (UVB) potrebbe invece esser facilmente identificato in Melchiorre Bandini da Camerino, cavaliere del Sacro ordine gerosolimitano, segretario e visitatore per l’Ordine in Francia nel 1446, presidente e procuratore generale nella curia di Roma sotto Paolo II, nel 1451 sicuramente legato di Niccolò V, e amico carissimo del poeta che in piú luoghi dell’opera ne tesse le lodi.40 A quei passi che aprono uno spiraglio sulla dimensione piú intima e affettiva del poeta, l’orditura poetica affianca poi versi d’atmosfera cortigiana, una dimensione cui il Pandoni sintonizzò la sua vita, la sua poesia, la sua attività culturale. L’arrivo alla corte di Milano è immaginato da lui come l’approdo agognato che metterà fine alle sue miserie e alla disperazione della moglie e delle figlie (55–58 UVB):

      Hic tuus, hic vates dicar, dignissima coniunx,

      ne careas titulo nominis ipsa mei.

      Cessabunt luctus, suspiria nulla subibunt,

      nulla tua tinget roscida gutta genas.

      L’ultima sezione del carme è animata da una ispirazione drammatica, fortemente invettiva e satirica, che si traduce anche in una strenua orditura retorica e in forti coloriture che rimandano al modello della satira di Giovenale. Un modello che, di contro al canone satirico classico che dichiarava sempre gli archetipi, non è mai esplicitamente citato dal poeta, ma emerge nell’intensa, violenta e sofferta intonazione. Il contesto improprio in cui è calata l’ispirazione invettiva ci mette dinanzi a uno dei tanti risultati della contaminazione di generi e forme cui gli umanisti amarono sottoporre la lezione dei classici, riattualizzandola e rifunzionalizzandola.41 E d’altra parte il Pandoni non era nuovo al genere satirico, dal momento che nel codice Conv. Soppr. J IX 10 (240) della Biblioteca Nazionale Centrale fiorentina, una delle piú complete raccolte dell’opera in versi del Pandoni, si legge alle cc. 44r–55r un lungo e complesso componimento (tuttora inedito) che reca sin dal titolo la definizione di Satyra (inc. Mene tibi facilem quondam caput orbis et una; expl. casta cupidine penetrarant tela sagictæ). A Giovenale riconduce senz’altro la tragica pittura della dilagante corruzione sociale che imbarbarisce Napoli (173–176 UV→145–148 B):

      Nam mea Parthenope iam facta est barbara: mores,

      Lingua habitusque virum barbariem redolet.

      Non possum mores patriæ sufferre vetustæ,

      Non possum Crassos Tantalidesque pati.

      Da un lato, la satira III di Giovenale – con il suo complesso quadro di Roma come città in cui non c’è piú luogo per lavori onesti; anzi, in cui chi è onesto non può piú vivere42 – offre una trama su cui poggiare la denuncia del decadimento di Napoli; dall’altro, la prima satira dello stesso Giovenale, soprattutto nei vv. 87–117, fornisce l’apporto retorico dell’indignatio. L’uso del modello classico non è un mero ricalco, ma è come incanalato a rappresentare, in un’intensa attualizzazione, comportamenti e atteggiamenti (177–188 UV→149–160 B):

      Hic nullus rerum pudor aut reverentia divii

      Nullaque servatur gratia, nulla fides.

      Strangulat hic omnes funesta pecunia, vincit

      Bella Venus, vincit et Ganymedis amor.

      Es leno impurus, placet alea, fallis amicos,

      Es tandem dignus fulmine? Divus eris!

      Quid refert viris tanto indulgere labori

      Quidve bonas artes edidicisse iuvat?

      Non est virtuti quisquam locus, usquam triumphat

      Sanguinis atra sitis et comes invidia.

      Corrupti mores, corrupta tempora magni

      Principis in patriam qui tulit arma meam.

      La matrice giovenaliana è svelata nella contaminazione dei versi 12–13 della decima satira: «sed pluris nimia congesta pecunia cura / strangulat et cuncta exuperans patrimonia census», che dà vita al verso sentenzioso Strangulat hic omnes funesta pecunia (v. 179 UV→151 B). Il recupero della preziosa tessera giovenaliana definisce il contesto poetico in cui l’autore intende muoversi nel costruire il complesso epilogo del carme: l’appoggio alla satira retorica di Giovenale legittima a un tempo l’orditura retorica dei versi e il temperamento incline al patethikon, in cui s’incunea anche la reale esperienza esistenziale dell’uomo e del poeta. L’alta moralità di cui il poeta si fa rappresentante e che lo costringe ad allontanarsi da una patria pure amata, onorata ed esibita come cifra d’identità e d’appartenenza vi spiega l’assoluto predominio della feroce denuncia moralistica, della decadenza del costume e della politica a Napoli e alla corte dei sovrani aragonesi. Il lusso d’oltremare importato dalla corte aragonese, la magnificentia esaltata dagli umanisti come la cifra connotante il regno di Alfonso, sono proposti in una luce negativa e considerati come la causa del disfacimento e della decadenza morale della città, dove non c’è piú posto per la virtú e su tutto trionfa la sete di sangue e l’invidia sua compagna, sanguinis atra sitis et comes invidia.43 Il riferimento a mores, lingua habitusque virum che puzzano di barbarie ha una sua pregnanza: si appunta infatti sugli specifici cambiamenti che investirono la società napoletana con l’entrata d’un sovrano straniero (e barbaro) che portava con sé i suoi funzionari da una terra lontana, innestando Napoli e il regno all’interno del sistema politico e amministrativo della corona d’Aragona.44Il Pandoni si appropria di