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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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soldi o roba),11 cui si aggiungono alcuni epigrammi a contenuto osceno e ingiurioso sia di Francesco sia di Gianmario Filelfo volti a suscitare il pubblico ludibrio nei confronti del poeta.12 Quando questi si allontanò da Milano è difficile dire con esattezza, ma dalla lettera di dedica dell’opusculum aureum de Talento datata 1° febbraio del 1459 e indirizzata a Cicco Simonetta si ricava ch’egli si trovava sicuramente ancora a Milano in tale data.13

      In tutti e tre i codici la raccolta di epigrammata si apre con lo stesso carme (inc. Ibit ad Insubrum superatis Alpibus urbem UV, Ibit ad Insubrum superatis fluctibus urbem B; expl. Dat Latio leges et favet ingeniis BUV), che in U reca il seguente e piuttosto articolato titolo:

      Poeta discedens ab urbe Roma se / confert ad Illustr(issimum) militiæ impera(torem) / F(ranciscum) S(fortiam) ac veniam petens ab ampliss(imo) P(atre) / pr(incipe) Cardinali Columna ostendit in / hac epistula quare urbem Romam et Neapolim pa / triam deserat cum summa laude et gloria / Sforcigenæ imperatoris;

      in V il titolo, anch’esso dettagliato e di difficile lettura:

      Ad amp(lissimum) p(rincipem) d(ominum) Prosperum cardinalem Columnam de abitu / poetæ ab urbe Roma et a patria Parthenope ut se conf(erat) / Ad ill(ustrissimum) pr(incipem) Fr(anciscum) S(fortiam) Vicecomitem inclytum militiæ imp(eratorem) / et Mediolani ducem ob (…)rum et virtutem et vitæ / claritatem incipit;14

      e in B, infine, reca il titolo:

      Ad cardinalem / de Columna lege felicter de abitu ab ur / be et patria / Parthenope.

      Il carme proemiale si presenta come un addio alla città di Napoli, patria del poeta, e come proposizione di un nuovo progetto di vita, il trasferimento a Milano presso la corte di Francesco Sforza, che viene celebrato per le virtú guerriere e per la giustizia e la pace che regna nei territorî sotto il suo dominio, ed è esaltato come nuovo Augusto portatore d’una novella e tà dell’oro – una celebrazione topica in ambito umanistico, ma di grande impatto ideologico.15 Si apre cosí in forma personale ed esistenziale, ma anche con toni encomiastici, una raccolta di Epigrammata che si presenta nel segno dello Sforza, dal momento che il titolo del codice di Berlino pone in rilievo proprio l’aspetto laudativo e celebrativo della silloge de summis imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanensium ducis; perché nella carta d’apertura di U campeggiano le iniziali del duca nel segno di un’apostrofe a lui, per l’appunto Francisco Sfortiæ, rivolta perché legga feliciter i versi destinatigli, ed infine nel segno sempre dello Sforza, a cc. 53r–v di U e a c. 44v di V, il carme-epigrafe sigilla la raccolta.

      L’epigramma longum presenta una struttura complessa che in termini generali si può riassumere in tre momenti. La prima parte si configura infatti come un’appassionata apostrofe al cardinal Prospero, membro dell’illustre famiglia dei Colonna ch’ebbe un ruolo non secondario nella formazione romana del poeta e che nel corso degli anni Trenta del Quattrocento fu punto di riferimento politico e ideologico importante per l’umanista.16 Questa sezione del carme si presenta anche come un addio alla città di Roma, che il poeta delinea in una descrizione tutta focalizzata sulle tracce della sua antichità e, quindi, fortemente caratterizzata in senso antiquario, secondo una sensibilità specifica del Pandoni. La seconda parte esalta in toni aulici il duca di Milano e la sua corte, una corte dove vivono intellettuali che rinnovano con le loro opere la grande tradizione della classicità legata ai nomi di Cicerone, Sallustio e Virgilio, e dove vive de Mecenate propago Cicco Simonetta, che il Pandoni considera e celebra come suo patrono. In tale sezione egli rinnova la promessa di un canto indirizzato al duca, un canto che concederà al Signore di Milano gloria ed eternità pari a quella degli antichi eroi (vv. 131–144 UV=103–116 B):

      Tunc ego Phœbeo lætus modulabor œstro

      Et statuam sexto grandius ire pede.

      Tunc tibi cantabunt mea numina, Phoebus et alma

      Cecropis et Musæ turba vocata novem;

      Hic acies, hic bella, duces populosque subactos,

      Unde tibi æternum, Sfortia, nomen erit,

      In quem pene omnes coniuravere Latini

      Et rex et regis miles et arma ducum.

      Hic patris imperium et tituli scribemus arma,

      Hic genus omne tuum Sforcigenasque deos.

      Cantabo armatas convexo umbone phalanges

      Et Venetum pulsos in sua regna duces.

      O mihi si liceat divo sub principe vitam

      Ducere, quas acies, quæ fera signa canam!

      La parte finale segna una vera e propria svolta all’interno del componimento: in essa, infatti, il poeta adotta un tono polemico, satirico e invettivo, dichiarando le ragioni che lo hanno costretto ad allontanarsi dalla sua patria, Napoli, di cui traccia un fosco quadro che significativamente capovolge il mito d’una città edenica, luogo quasi di un paradiso in terra e specchio d’una corte magnifica e coesa intorno a un sovrano virtutum omnium viva imago,17 e condanna le mode allogene importate dai príncipi aragonesi in quanto lontanissime dall’austerità del mos maiorum della tradizione napoletana.18

      Significative varianti testuali e strutturali concorrono a distinguere le versioni dell’epigramma tràdite dai testimoni a me noti, dal momento che B reca una redazione brevior di 176 versi, e UV recano una redazione longior sostanzialmente convergente di 204 versi. Le divergenze redazionali macroscopiche si possono cogliere nel quadro sinottico che fornisco di séguito:

UV 1–76 77–86 87–88 con differenze testuali 89-90 91–94 con differenze testuali 95–98 99–110 111–120 121–122 123–126 127–128 129–204 → → → → → → → → B 1–76 mancanti 77–78 mancanti 79–82 83–86 mancanti 87–96 mancanti 97–100 mancanti 101–176

      Senza addentrarmi in una valutazione strettamente filologica delle varianti strutturali e testuali mi limito qui a rilevare che i versi mancanti nella versione brevior sono generalmente rivolti alla celebrazione e all’encomio del duca e dell’entourage sforzesco, e che la porzione iniziale con l’apostrofe al cardinal Prospero Colonna e l’addio a Roma, agli amici e alla famiglia (vv. 1–60 UVB), come la porzione finale in cui il poeta spiega le ragioni del proprio allontamento da Napoli (vv. 173–204 UV=145–176 B), sono testualmente e strutturalmente convergenti nei tre testimoni.

      Il legame insieme con Napoli e con Roma spiega il congedo doppio escogitato dal poeta, rivolto dapprima in toni accorati e malinconi nella parte iniziale a Roma, alla sua famiglia e agli amici d’ambiente romano, e poi con toni invettivi nella parte finale a Napoli, sua patria d’origine. In piú luoghi della propria poesia, infatti, il Pandoni chiamò Napoli esplicitamente come sua patria, non mancando però di rimarcare il proprio legame con Roma, dove trascorse una parte importante della vita e, certamente, gli anni della formazione.19 Cosí, in un autoepitaffio il Pandoni si celebra come poeta che canta laudes vatumque ducumque e ricorda Parthenope come sua patria, dichiarando d’appartenere alla casata dei Pandoni e citando lo stesso suo legame con Roma:

      Qui cecini egregias laudes vatumque ducumque

      condor in hoc tumulo carmine perpetuo:

      Porcelius