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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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e piú antiche stampe, quelle uscite lui vivente, che pur non esitano a definirlo «poeta laureato», o quelle degli altri incunaboli noti, ivi compresa la fiorentinissima (nell’operazione editoriale tutta, ma in primis nella dedicatoria del Poliziano a Lorenzo) editio princeps del De re ædificatoria.15

      È del resto evidente che l’evocare l’esilio, fisico e materiale, oppure sentimentale e intellettuale, implica il riconoscimento preliminare di una «patria» insieme reale e ideale. Col che torniamo alla fondamentale domanda già posta: è davvero fiorentino l’Alberti? è davvero, l’Alberti, legato a Firenze come città e come terra, come cultura e come tradizione artistica e intellettuale? a Firenze piú che ad altri luoghi, piú che a Bologna, a Roma, a Ferrara, a Mantova, a Venezia, etc.? Se ci tenessimo alla vulgata dal Vasari e dal Bartoli costruita in ottemperanza al tenace disegno propagandistico perseguito dal duca Cosimo I e ai connessi suoi desiderata di riscrittura storiografica, dovremmo con ogni probabilità concludere per il sí. Ma è quella la realtà? è davvero in quella vulgata la verità storica?

      Soffermiamoci brevemente sui libri de Familia, per molteplici riguardi lo scritto dell’Alberti per noi piú significativo, l’unica sua opera non di poco momento in cui venga espressamente da lui posto il problema della propria ascendenza e famiglia, della propria patria e della propria terra, e dunque la sola sua opera di vasta portata in cui il tema dell’esilio risulti anche esplicitamente trattato, e ne segni indelebilmente molte pagine e passi e molte o moltissime riflessioni. Se dunque è lecito sostenere che i dialoghi Sulla famiglia nascano in certo modo proprio dal tentativo del loro autore di metter radici, umanamente e psicologicamente, in seno a una determinata famiglia e a una ben precisa terra, quelle non già della madre (allusa, entro l’opera dell’Alberti, forse soltanto nella Vidua, non senza peraltro una qualche irriverente ironia16), ma del padre Lorenzo (principale interlocutore del primo Atto del libro I, ove dialoga coi congiunti Lionardo e Adovardo) e, soprattutto, del nonno paterno Benedetto (significativamente presente nell’opera per il tramite soprattutto dell’emblematico suo discorso riportato da Lorenzo a I 143–255), il quale è altresí protagonista della breve intercenale Divitiæ; se è senz’altro lecito scorgere nei libri de Familia un simile tentativo, anche va rilevato e detto ch’esso in massima parte abortí ineluttabilmente non appena portato a conoscenza dei parenti, i quali vi opposero il reciso rifiuto su cui si dilunga la Vita, piú volte definendoli «ingrati» o «improbi» (§ 27) e «iniqui» (§ 69), e ricordando dolorosamente come «inter omnes Albertos» appena uno degnò di leggere i «librorum tituli» dell’opera, peraltro ancora incompleta, offerta loro – ciò che ben s’attaglia a quanto è dato sapere circa la circolazione e la fortuna di quei dialoghi. Abortito che fu, quel tentativo venne poi ben presto, se non in toto abbandonato, quanto meno messo in sordina, e piú tardi ripreso solo assai parzialmente, e solo tramite la fondamentale ridefinizione iscritta nei Profugia o nel De iciarchia, dialoghi non già «domestici e familiari» ma tutt’al piú «amichevoli», segnati dall’abbandono definitivo del quadro familiare e dalla ricerca di un possibile, seppur improbabile orizzonte cittadino, i cui interlocutori non son piú, né piú posson essere, degli Alberti stricto sensu; messo dunque in sordina e superato, quel tentativo, da tematiche e scritti (il Momus e il De re ædificatoria, principalmente) che volgono ad altro l’attenzione e lo sforzo creativo dell’umanista. D’altro canto, non può certo negarsi che quel tentativo sia stato sin dall’inizio e con estrema chiarezza inquadrato, col Prologus, nel piú vasto orizzonte, culturale e psicologico insieme, in cui tutta la produzione seguente dell’Alberti andrà con naturalezza a iscriversi, quello appunto della romanità – di una romanità palesemente ridefinita come italicità e, in tal modo, riconquistata e fatta propria: la celeberrima dissertazione su virtú e fortuna che di quel Prologus costituisce la parte maggiormente saliente non lascia invero, al riguardo, dubbio alcuno.

      Assai piú e assai meglio d’ogni altra sua opera, i libri de Familia traducono ed esprimono quindi il tentativo di un Alberti ancor relativamente giovane e, insomma, scrittore della prima propria maturità – la concezione, la redazione e la diffusione medesima dell’opera da parte del suo autore sono infatti integralmente comprese fra il ’33 e il ’41 – di iscriversi, invero per taluni riguardi persino a viva forza, nella tradizione e nella patria fiorentine del padre Lorenzo e del nonno paterno Benedetto, della famiglia insomma di cui, recentemente purgato «in presentia […] pape» dal proprio giuridico peccato d’origine da Biagio da Molin, portava ora con fierezza il nome – gli Alberti.17 Nel palese suo tradurre problematiche e interessi pressoché esclusivamente tecnico-artistici e architettonici da un lato, e ludici dall’altro, la produzione dell’ultimo trentennio di vita dell’Alberti, ormai quasi per intero in latino ed esplicitantesi soprattutto, per la sua parte scritta, nella concezione, redazione, revisione del De re ædificatoria da un canto e del Momus dall’altro, che le ultime ricerche filologiche provano non esser mai stati pubblicati o diffusi dal loro autore, il quale vi lavorò viceversa sino alla morte (1472),18 attesta dal canto suo con chiarezza il superamento e il sostanziale abbandono del disegno, indiscutibilmente perseguito dall’Alberti negli anni Trenta del Quattrocento, di una propria re-inserzione o piú semplicemente di un proprio reale inserimento nell’àmbito familiare della consorteria degli Alberti non meno che in quello dell’originaria loro patria fiorentina e toscana, come membro de iure della prima e come fattivo «civis» o «concivis» della seconda.

      Opere, l’una e l’altra, a Roma legate e a Roma, secondo ogni probabilità, in massima parte redatte e lungamente rielaborate, riviste, corrette, Momus e De re ædificatoria appaiono in concreto infinitamente piú italiche e classiche che fiorentine o toscane. E se sporadici accenni alle terre d’Etruria o di Toscana sono, fra i molti altri, ben naturalmente anche in esse rinvenibili – il memorabile tentavivo operato a I 26–31 dal proteiforme protagonista del Momus di spegnere con la predicazione il culto degli dèi che l’avevano esiliato, tentativo che si vuole ironicamente espletato in Etruria, ne costituisce un pregevole esempio –; se d’altra parte la tarda composizione dei libri de Iciarchia prolunga e porta a compimento il geniale polittico dei dialoghi italiani dell’umanista, nel contempo dissolvendone la dimensione familiare in quella, urbana e sociale, della rete d’amicizie o d’alleanze, nella fattispecie fiorentine, concretamente additata come indispensabile non meno alla famiglia che all’individuo; è chiaro per noi che sarebbe un errore scorgervi o leggervi altro da quel generico permanere di taluni, materiali e perlopiú concreti interessi dell’Alberti a Firenze e in Toscana che i documenti biografici noti attestano con bastante chiarezza, non meno chiaramente attestando la sussistenza di paralleli, concreti interessi e ideali legami dell’Alberti in tutta una serie d’altri luoghi, da Roma a Padova e da Bologna a Mantova – città, quest’ultima, ov’egli non a caso progetta, ancora nei primi mesi del ’70, d’acquistar una o piú proprietà.19 E, ciò, quand’anche acconsentissimo a considerare esaurite e ormai spente le strette relazioni da lui avute con Ferrara fino almeno al ’50 e alla morte di Leonello d’Este, o con Rimini fino alla morte di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel ’68, e quelle intessute altresí con l’Italia aragonese e insulare, con Napoli oltreché con Palermo e la Sicilia, di cui quasi nulla di preciso si sa – i superstiti documenti dicono invece ben poco d’altri luoghi ancora, e in primis di Venezia, che conserva e, ancor piú, ha conservato per secoli documenti e codici albertiani di primaria importanza, in non piccola parte autografi o idiografi e postillati o glossati, e con cui è pertanto giocoforza supporre che l’Alberti mantenesse sino alla morte uno speciale e forte legame, stretto con ogni evidenza negli esordî stessi della propria vita activa; vi rinviano infatti i tratti fondamentali della sua formazione (l’accentuato peso dell’aristotelismo), della medesima sua lingua naturale (la citata veneticità delle lettere volgari), di molti suoi ricordi (quando nell’àmbito di una bellissima similitudine indica in De familia, II 1987 ss. un porto per antonomasia, è quello di Venezia che ricorda e descrive) ed eloquenti simboli (come s’è visto, a suggerire un’intima preferenza e una personale adesione trasceglie, fra i mille possibili prænomina, il simbolico ed esclusivo nome di Venezia: Leo o Leone); né può essere del tutto casuale che lo stesso suo impiego in curia, e la conseguente