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Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts


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principe della Chiesa, ma dal veneto patriarca Biagio da Molin, suo protettore.20

      Neppure è da ritenersi privo di significato il fatto che taluni dei suoi stessi ultimi soggiorni a Firenze siano stati determinati o richiesti, non già da suoi interessi fiorentini, o da interessi di fiorentini o della Firenze contemporanea nei confronti suoi e della sua opera ma, al contrario, dalla persistenza dei forti suoi legami con territorî e ottimati e governi da Firenze distinti e lontani: emblematico può a tal proposito ritenersi il caso del suo intervento per la tribuna della Santissima Annunziata, effettuato a partire dal 1467 ca., e dunque parallelamente alla redazione dei tre libri de Iciarchia, per conto e per volontà di Ludovico Gonzaga, che ne era il patrono e che seppe imporre il nome dell’Alberti a dei fiorentini perlomeno assai riluttanti a servirsi di lui – parzialmente edita (e commentata) dal Fubini, la corrispondenza al riguardo scambiata da Lorenzo de’ Medici col Gonzaga è sotto ogni riguardo eloquente.21

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      Come può chiarire, fra l’altro, un semplice confronto tra le disposizioni testamentarie di Battista (Roma, 19 aprile 1472) e quelle del di lui biscugino Bernardo d’Antonio di Ricciardo Alberti (Firenze, 16 maggio 1495),22 che in virtú del lodo arbitrale pronunciato da Marco Parenti nell’ottobre del ’68 con l’umanista spartisce per poco piú di tre anni il palazzo fatto costruire nell’odierna via de’ Benci dal nonno di questi Benedetto, e che l’Alberti – evidentemente a lui, negli ultimissimi suoi giorni, piú che ad altri legato in conseguenza di quello stesso «misterioso» lodo23 – nomina suo parziale erede,24 laddove la fiorentinità di Bernardo e lo stesso suo legame con gli albertiani «lares et penates» fiorentini sono palesi e indubbî, la postulata fiorentinità di Battista appare, alla morte di lui, perlomeno assai sfumata e, certo, piú stemperata ancora del legame ch’egli allora intrattiene col ramo fiorentino della famiglia di cui porta il nome: basti, al riguardo, richiamare (1) come nessuno dei ben tre esecutori testamentarî dall’Alberti nominati (il cardinal Niccolò Forteguerri, Antonio Grassi bolognese e il pisano Mattia Palmieri) sia un suo consanguineo, (2) come lo specifico legato istituente un collegio di studî in Bologna evidenzî innanzitutto un duraturo, fortissimo legame ideale con l’Emilia, e infine (3) come la disposizione con cui espressamente e senza sorpresa alcuna egli ordina d’esser sepolto in Padova (in sepulchro patris sui) ratifichi e sigilli definitivamente la defiorentinizzazione, per cosí dire, tanto sua quanto del ramo paterno della famiglia. E ciò, giusta quanto a ben vedere già enunciava l’autocertificazione in proposito consegnata al De iciarchia, secondo ogni probabilità l’ultimissimo scritto dell’Alberti, laddove Battista afferma che

      Dei costumi della terra [sc. la città di Firenze] mai accadde a me altrove ragionarne; e sonci come forestiere, raro ci venni e poco ci dimorai.25

      Era quanto i fiorentini contemporanei dell’Alberti, e quelli anche delle prime generazioni seguenti, ben sapevano e fecero caparbiamente valere nella multiforme, mai contraddetta censura con cui tentarono di sotterrarne l’opera e nell’autentico ostracismo con cui ne colpirono il nome medesimo, deliberatamente taciuto – si sa – non soltanto nelle carte di Giovanni di Paolo Rucellai, ma persino laddove, come nelle Vite di Vespasiano da Bisticci, ci si vedeva costretti ad accennare all’una o all’altra delle molteplici sue iniziative. È quanto a ben vedere traluce nella stessa editio princeps del De re ædificatoria, che insieme anticipa d’un soffio, fiorentinizzandola, un’iniziativa chiaramente nell’aria in molti luoghi d’Italia, e non soltanto d’Italia, e censura tutto il resto della multiforme produzione albertiana;26 ed è quanto, ancora, la stampa tardissima, della metà dell’Ottocento, e per iniziativa di un non toscano, il Bonucci, della serie intera dei suoi dialoghi volgari, o la circolazione manoscritta e a stampa essenzialmente extra-fiorentina della massima parte della sua opera latina inequivocabilmente dimostra a chi ancora volesse dubitarne.

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      Capolavoro del dialogo albertiano, e del dialogo rinascimentale tout court, i libri de Familia impostano dunque e al tempo stesso chiudono o archiviano il tentativo dall’Alberti compiuto negli anni Trenta di fiorentinizzarsi. Non sarà inutile rilevare al riguardo come in quel medesimo torno d’anni, e a ben vedere con identica forzatura, quel tentativo trovi espressione altresí nella dedica al Brunelleschi,27 non già e non certo del De pictura, né già sic et simpliciter della redazione volgare di quel trattato sotto ogni riguardo fondativo e rivoluzionario, ma di un solo esemplare di tale redazione del De pictura: il codice oggi II iv 38 (olim Magl. XXI 119) della fiorentina Biblioteca Nazionale Centrale, codice, com’è noto, legato allo scrittoio o al laboratorio personale dell’autore stesso, dal quale non sembra, vivente l’Alberti, esser mai uscito; ed esemplare, dunque, mai presentato al destinatario, al Brunelleschi.

      Eloquente in tal senso è il fatto stesso che di quella redazione volgare, che quasi non circolò e di cui si perse ben presto, nell’Europa del Rinascimento e a Firenze stessa, ogni notizia o memoria – come ho altrove già rilevato, le versioni italiane del Domenichi prima (1546 e 1565) e del Bartoli poi (1568) seguono, in ogni senso del termine, l’editio princeps del testo latino stampata a Basilea nel 1540! –, siano noti solo due altri testimoni manoscritti,28 e ch’essi siano entrambi in toto indipendenti dal succitato codice recante il Prologus al Brunelleschi. Come la presentazione cosí anche la dedica a questi della riduzione in volgare del trattato dovette, insomma, restare un progetto non mandato ad effetto, un’idea in prosieguo di tempo abbandonata dall’autore.29

      Ma torniamo ai libri de Familia che, dicevamo, impostano e insieme sostanzialmente archiviano il tentativo albertiano di fiorentinizzarsi. Lo fanno dando vita a un dialogo il cui autore entra direttamente in gara coi massimi rappresentanti della tradizione classica greco-romana – e giudica persino, nell’ultimo libro, d’averli inequivocabilmente superati.30 L’ardito, arditissimo disegno dell’opera, e piú ancora forse del suo libro de Amicitia, l’imprudente genialità di cui l’Alberti dà prova nella sua esecuzione – tanto piú imprudente in quanto accompagnantesi ad altre sue rivoluzionarie prove, prima fra tutte quella della dimostrazione della grammaticalità del volgare e della sua derivazione dal latino nel Della lingua toscana, dimostrazione dolorosa per una parte non piccola dell’élite umanistica del tempo e dolorosissima per Leonardo Bruni in particolare –, suscitarono contro di lui, com’è noto, la spietata, tenacissima censura dell’establishment culturale umanistico e dell’intelligencija fiorentina tutta in occasione del Certame dell’ottobre 1441.

      Il verdetto dei giudici umanistici e della Firenze ufficiale, verdetto senza appello e, come tutto induce a credere, rinnovato e fatto valere in molteplici occasioni lungo l’intero secolo seguente (e oltre) a Firenze, non lasciò all’Alberti altra scelta che quella d’archiviare definitivamente il tentativo compiuto – tentativo di fiorentinizzazione e, in un senso, acclimatazione nell’ancestrale patria del padre. E invero la sua opera seguente e i decennî da lui vissuti dopo di allora testimoniano di un’almeno progressiva sua appropriazione e valorizzazione di una patria piú vera e piú ampia, quella di una classicità dinamicamente intesa e di un’italicità senza confronto sfaccettata e ricca. Col che, sia lecito concludere, egli superava, archiviandolo, anche l’originario suo sentimento d’esclusione e d’esilio – quel sentimento che tanta parte aveva per l’appunto avuto nella concezione del De familia e nell’adozione stessa del volgare –, facendo del persistente, oggettivo proprio sradicamento quella definitiva, e privilegiata, condizione di riflessione, di creazione e di scrittura, non meno che d’alterità intellettuale e creativa, cui l’intera sua opera in ultima analisi rinvia.31

      Bibliografia

      Alberti, Carlo: Tutti gli scritti, edizione critica e commento a cura di Alberto Martelli, Firenze 2015.

      Alberti, Francesco d’Altobianco: Rime, edizione critica e commentata a cura di Alessio Decaria, Bologna 2008.

      Alberti, Leon Battista: L’architettura [De re ædificatoria]. Testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi. Introduzione e note di Paolo Portoghesi, Milano 1966.

      Alberti, Leon Battista: Opere volgari,