Alek's Books

La colpa è sua


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E non sono tipo da accordi. Né da discussioni.”

      "Ok."

      Tanto avrei perso lo stesso. Se mi avesse chiesto di spogliarmi nudo e camminare a quattro zampe fino alla mia macchina, abbaiando come un cane, l’avrei fatto. Mi aveva stregato in quattro e quattr’otto. Gli chiesi dove gli sarebbe piaciuto andare. Propose un locale un po' fuori dalla città. Quindi partimmo.

      "È da tanto che abiti con Nicolao?” cercai di iniziare una conversazione. Dalle sue indicazioni avevo supposto che avremmo impiegato un’oretta per arrivarci, perfetto per avere un po’ di tempo in due per scoprire di più su quel biondo misterioso.

       "Da due anni. Nico è stato buttato fuori a sedici anni dai suoi, quando ha detto loro di essere frocio. È riuscito a venire qui dal Mexico con uno. Diciamo che sono stato il suo primo amico."

      “Siete stati una coppia?"

      "Perché?” mi chiese sorpreso.

      "M-mi era sembrato che non gli andasse la mia presenza in casa, e quindi avevo pensato… Scusa, ogni tanto mi faccio dei film da solo."

      Ghignò.

       “È molto protettivo nei miei confronti. E poi è un geloso di natura. Sarà il suo carattere da latino. La sua famiglia ha interrotto qualsiasi contatto con lui, e quindi io e l'altro ragazzo che abita con noi siamo diventati una sorta di famiglia per lui.”

      "L'altro ragazzo?"

      Ecco, lo sapevo. J stava iniziando a raccontarsi e io reagivo esattamente come non avrei dovuto reagire. Da futuro marito geloso. Avessi potuto, sarei tornato indietro di cinque secondi, giusto per correggere il tono con il quale avevo fatto la domanda. Troppo geloso, troppo. Guardai velocemente nella direzione di J che aveva un sorriso compiaciuto sulle labbra. La cosa lo stava divertendo.

      "Sì, Wotan, un ragazzo dalla Germania. Non so se si chiama veramente così, ma si è sempre fatto chiamare in quel modo. Anche lui buttato in strada dai suoi dopo l’outing. Lui era il mio primo coinquilino. Ma è sempre in giro. È come se non ci fosse. Per fortuna. Tra lui e Nico c’è sempre un po’ di tensione”, ridacchiò.

      Mi raccontava di Nicolao che si era innamorato di Wotan da quando era arrivato a New York e l’aveva conosciuto. Wotan era un bel ragazzo, ma per niente il tipo di J. Era poco più alto di lui, magrissimo, pieno di pircing, capelli rasati. Sembrava uno da non frequentare, fosse stato per il suo aspetto e per l’uso continuo di cocaina, eroina, pastiglie di ogni tipo e tutto quello che riusciva a ricuperare gratuitamente. J adorava però la sua capacità di far ridere anche i morti. Oltre all’accento tipicamente tedesco, che non era riuscito a togliersi in tutti questi anni, era una battuta dopo l’altra. Tirava tutto nel ridicolo, alzando l’umore dei suoi due coinquilini nei tanti momenti bui della loro vita. Niente sembrava riuscire a scuoterlo per davvero. Veniva però toccato uno dei suoi amici diventava una bestia. “Gli amici sono santi”, diceva sempre. Per Wotan la vita era come un libro: se non gli piaceva un capitolo, voltava pagina senza nemmeno chiedersi cosa c’era scritto. Era da subito diventato come un fratello maggiore per J, che allora aveva diciassette anni, sempre presenti quando avevano bisogno l’uno dell’altro.

      Per Nicolao invece era difficile conviverci, continuava J. Non era mai riuscito ad accettare il fatto che Wotan non fosse attratto da lui, completamente insensibile davanti a quel fascino da ragazzino eterno. C’aveva provato in tutti i modi: facendosi trovare nudo nel suo letto, portandogli regali di ogni tipo, procurandogli le droghe che voleva quando ne era sprovvisto. Ma niente. Wotan gli voleva bene, tanto. Per lui era un fratellino piccolo e se lo sarebbe coccolato volentieri, se i suoi abbracci non fossero stati interpretati sempre in modo sbagliato. Tutto questo scatenava perpetue tensioni tra i due. Nicolao era intrattabile quando c’era anche Wotan, scaricando le sue frustrazioni su J. E Wotan, dopo la prima, seconda, terza volta che Nicolao gli rispondeva con lo sguardo da cagnolino bastonato, si arrabbiava puntualmente.

       “In quelle situazioni non potevo fare altro che ritirarmi in stanza mia e mettermi le cuffie, per coprire le continue discussioni con un po’ di musica. Adesso per fortuna si sono calmate le acque. Ti piacerebbe Wotan, fa morire dal ridere! È strano, ma in gamba.”

      “Tu e lui…”, iniziai, già pronto a chiedergli se vi era qualcosa di tenero tra loro due. Non che ne avevo avuto l’impressione. Ciò che mi aveva appena raccontato dei suoi inquilini, sembrava non più di un’amicizia fraterna. Volevo però andare sul sicuro, prima di fare un’ulteriore figuraccia. Avere un minimo di certezza, insomma, che le sensazioni, provate ogni volta che J mi guardava negli occhi, potessero continuare il proprio percorso naturale, senza bastonate inutili ed evitabili.

      Sentii J voltarsi per guardarmi. Quello sguardo bruciava quasi, esigente della mia attenzione. Fermi ad un semaforo, girai la testa per incontrare i suoi occhi. Un sorriso a trentadue denti apparì sul suo viso, intenerito da un’imbarazzo appena accennato.

      “No. Sono liberissimo.”

      Sentivo le mie guance bruciare. Era la risposta che avevo sperato di ricevere. Liberissimo. E da come l’aveva detto, l’intenzione di cambiare lo stato attuale ce l’aveva anche lui.

      Semaforo verde.

       “Lì a destra c’è l’entrata al parcheggio sotterraneo.”

       Era decisamente meglio che lasciare la macchina per strada. La zona non era delle più tranquille e non volevo farmi rinfacciare un qualsiasi danno. Tra quel posto e il quartiere dove abitavo, non avrei saputo scegliere quale facesse più impressione. Beh, io ci ero abituato, ormai non ci facevo più caso. Ma si capiva lontano un miglio quanto fosse nervoso Daniel.

       Scesi dalla macchina prendemmo l’ascensore e scendemmo un ulteriore piano. Il locale era sotto terra, perfetto per impressionare chiunque non fosse abituato ad un certo tipo di posto.

       “Rilassati. Sembra più oscuro di quello che è”, cercai di tranquillizzarlo sorridendo, appoggiandogli una mano sulla spalla e stringendogliela.

       “Benvenuto al S.O.P.!”

       Appena si aprì la porta dell’ascensore, Daniel rimase a bocca aperta. La luce soffusa illuminava in modo accogliente e caldo un locale di un’eleganza stratosferica. Piccoli divanetti di velluto rosso scuro erano sparsi in una sala rotonda di circa cinquecento metri quadrati, completati da piccoli tavoli di cristallo. Il pavimento lucido di marmo color antracite era impeccabile. Se un giorno mi dovessi comprare un appartamento, magari un attico nel centro di New York City, voglio un pavimento così! Distribuiti tra i divani c’erano poi dei grandi dischi cromati che fungevano da cubi, sui quali ballavano ragazze in topless di ogni razza e colore. I dischi venivano sorretti da lunghi tubi metallici, ricoperti da una vernice nera opaca, così sembrava fluttuassero nel vuoto. Era proprio figo come posto, e dagli occhi di Daniel mi sembrò di capire che gli piacesse.

       Appena mi videro, le ragazze sui cubi mi lanciarono baci con le mani, alcune si abbassarono per darmi un bacio in bocca e salutarono Daniel facendogli l’occhiolino. Lo presi per mano e lo tirai verso un tavolo esterno, vicino al bancone del bar. Lo feci sedere e andai da Luke, il barman, per ordinare una bottiglia di Moët & Chandon.

       Luke era l’amico di tutti. E la puttana più falsa del mondo. Finché aveva la minima speranza di trarre un qualsiasi vantaggio da una conoscenza era il perfetto compagno d’avventura. Appena non gli servivi più, ti distruggeva con voci di corridoio acide e viscide. Ci aveva provato con me da quando aveva iniziato a lavorare al S.O.P., ma non ero mai stato interessato. Dopo un anno di avance lasciò finalmente perdere.

       Gli dissi che ero venuto con un cliente, giusto per evitare delle chiacchiere. Big D, il proprietario di quel posto, non voleva che frequentassimo ragazzi al di fuori del Club, o che portassimo uomini che non fossero clienti. Ma siccome ero stato sempre in ottimi rapporti con lui, nel senso del rispetto reciproco intendo, non mi facevo alcun problema. Tanto non c’era quasi mai.