Emilio Salgari

La favorita del Mahdi


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aridissime: esitò un momento, poi s’arrampicò su pei dirupati fianchi di una delle più alte, aggrappandosi agli sterpi e ai crepacci e raggiunse quasi la vetta, dove s’arrestò dinanzi a una gran caverna.

       Ci siamo, diss’egli, deponendo il greco a terra.

       È qui che noi pianteremo il nostro nido?

       Sì, padrone, e da questa cima si domina Hossanieh e il campo. Ci sarà facile vedere chi entra e chi esce.

       Sta bene, accendi qualche pezzo di legno per vedere dove si va. Ho paura che abbiamo a incontrare parecchi serpenti.

      Il nubiano accese un pezzo di torcia resinosa e tutti e due entrarono con precauzione. Ben presto si trovarono in un ampio stanzone, la cui vòlta era sostenuta da parecchie colonne trasparenti che riflettevano magnificamente la luce. Le pareti, scavate bizzarramente, erano umidiccie ma il terreno, eccettuato un angolo dove raccoglievansi gli scoli che formavano un fossatello, era asciutto e cosparso di una sabbia bianchiccia in mezzo alla quale brillavano pezzi di salgemma. Il nubiano, ammazzati tutti gli scorpioni grigi che l’abitavano, i cui morsi sono pericolosissimi, s’accinse a correre al campo, prima che la notizia della morte di Notis si spargesse e che il pascià Dhafar s’impadronisse di tuttociò che conteneva la tenda.

       Alto là, disse Notis, che seduto su di un macigno si fasciava la ferita. Se tu vai laggiù, non dimenticare d’informarti dove sia Fathma e come vadano le faccende.

      Il nubiano sorrise mostrando i candidi denti e scese in fretta la collina correndo verso il campo. Notis, che aveva finito di fasciare la ferita, uscì e andò a sedersi sul limitare della caverna, guardando attentamente il villaggio d’Hossanieh e le tende del piccolo esercito egiziano.

       Essi sono là, dìss’egli con gioia feroce, tutti e due là, a portata della mia mano, a portata della mia vendetta. Parlatevi di felicità, di amori, di immense gioie, ma io schianterò il cuore di entrambi, e in modo che non abbiate a guarire più mai. Non si conosce fino a qual punto sappia odiare il greco Notis.

      «Non ho forze ora, m›è impossibile assalirvi di fronte poichè io sono morto, ma troverò io i mezzi per colpirvi e farvi cadere l›uno nelle mani di Elenka e l›altra nelle mie. Io sarò il leone e mia sorella la iena! Oh! allora…

      Egli interruppe bruscamente il monologo e si drizzò come spinto da una molla. Al chiaror di un raggio lunare che cadeva sul campo, aveva scorto un mahari dal mantello nero lasciare la tenda dell’arabo Abd-el-Kerim e dirigersi a rapidi passi verso gli avamposti.

      Guardando con maggiore attenzione, vide sul dorso dell’animale un uomo avvolto in un gran taub bianco. Impallidì e le sue mani cercarono un’arma.

       Dio mi punisca, se quell’uomo là non è lo Amr, lo schiavo d’Hassarn. Dove può mai recarsi, che lascia il campo a quest’ora?

      Notis rimase un istante indeciso, poi si levò e ritornò in furia alla grotta, dalla quale uscì armato della carabina di Takir. Una cupa fiamma brillava nei suoi occhi e il suo volto tradiva un feroce proponimento.

      Quantunque le ferite lo tormentassero crudelmente dopo mille sforzi che gli costarono cento bestemmie e cento lamenti dolorosi, scese la erta collina e guadagnò la pianura cosparsa qua e là di intristiti alfèh e di pochi tamarischi. Egli strisciò silenziosamente fino a raggiungere un misero tugul diroccato, una capannuccia di paglia di forma conica. Si nascose lì dietro colla carabina armata e gli occhi fissi sullo schiavo d’Hassarn che si avvicinava rapidamente, aizzando con un fischio, il mahari.

       Bisogna che sappia ciò che quell’uomo porta, mormorò Notis. Con un colpo di carabina gli farò scoppiare la testa come fosse una zucca.

      Alcuni minuti dopo il mahari giungeva a centocinquanta passi dal tugul. Amr continuava a fischiare tranquillamente, senza darsi la pena di guardarsi d’attorno, più che sicuro che il luogo era deserto.

      Notis credette giunto il momento opportuno per mandarlo nel paradiso di Maometto. Puntò la carabina, mirò per qualche tempo con mano ferma, poi premette il grilletto.

      La detonazione non era ancor finita che Amr precipitava di sella, contorcendosi disperatamente fra le erbe.

       All’armi! s’udirono gridare le sentinelle dell’accampamento.

      Notis non si sgomentò. Raggiunse l’agonizzante che emetteva rantoli strazianti, cercando di sollevarsi, e l’atterrò spezzandogli la testa col calcio della carabina.

       Sta cheto, disse l’assassino, sogghignando.

      Si curvò sul poveretto che non dava più segno di vita, e lo frugò ben bene rovesciandogli tutte le saccoccie. Trovò una lettera accuratamente suggellata che s’affrettò a leggere, valendosi del chiaro di luna, Ecco il contenuto:

      «Elenka,

      Non pensate più a me. Il nodo che univa i nostri cuori si è spezzato per sempre sotto il destino e i voleri del Profeta. Non indagate le cause che mi spinsero a lasciarvi, nè cercate di raggiungermi che ormai ogni altro nodo è impossibile. Che Allàh vi conservi e il Profeta vi protegga.

      Abd-el-Kerim.»

      Il greco, nel leggerla, vacillò come fosse stato côlto da improvviso malore. Una bestemmia gli uscì dalle labbra contratte.

       Ira di Dio! tuonò egli, tenendo il pugno chiuso verso il campo d’Hossanieh. Che i fulmini del cielo m’inceneriscano, se io non vendicherò mia sorella e poi me. Sta bene, Abd-el-Kerim, a noi due ora!…

      CAPITOLO VII. Fit-Debbeud

      Spuntava l’alba quando il greco, dopo di aver nascosto fra le alte erbe il povero Amr e il mahari che aveva sventrato con una coltellata, giungeva alla grotta.

      Una collera senza limiti alterava il suo volto già per sè stesso abbastanza truce e una smania terribile, una sete di vendetta ardevagli in petto. Egli comprendeva ormai che tutto era terminato e che le speranze che Abd-el-Kerim avesse finito per ravvedersi e ritornare ad Elenka, erano troncate, come pure comprendeva che Fathma per lui era definitivamente perduta a meno di un miracolo o di un tradimento.

       Ah! esclamò egli coi denti stretti, lasciandosi cadere su di un macigno e prendendosi la testa fra le mani, È proprio vero che quel traditore di Abd-el-Kerim l’ha definitivamente rotta con mia sorella Elenka? Eppure mi pareva innamorato alla follia; eppure aveva giurato di farla sua e giurato non su Allah, ma sul Corano. Traditore e spergiuro adunque, quest’arabo del demonio!.. Maledetta Fathma, sei stata la causa di tutte le mie disgrazie!

      «Ma Notis è forte e tremendo nelle sue ire e nelle sue vendette, e per quanto io ami quell›almea, mi vendicherò, ma ben terribilmente. Va, Fathma, abbandonati nelle braccia di quello spergiuro che ingannò mia sorella; disprezzami fin che vuoi, ma io ti schianterò il cuore, oh sì, te lo schianterò. Se non fosse un barlume di speranza che ancor mi trattiene, la speranza che Abd-el-Kerim abbia a tornare ai piedi di Elenka, lo assassinerei questo mio rivale!

      Egli si assise dinanzi l’apertura della grotta spiando attentamente il campo egiziano per rendersi conto di quanto succedeva.

      Di quando in quando uscivano lunghe file di egiziani carichi dei loro sansemieh di pelle di capra che andavano a empire ai pozzi d’Hossanieh e dietro a loro schiere di asini coi boricchieri che trottavano ai loro fianchi emettendo il lamentevole loro haaahh per animarli, squadroni di basci-bozuk che si esercitavano a manovrare sui terreni malagevoli e compagnie di soldati che marciavano in qua e in là formando di spesso i quadrati, come se si trattasse di sostenere una canea di arabi Abu-Rof.

      Mille rumori venivano dal campo in mezzo ai quali risuonava la stridula voce degli acquaiuoli che gridavano incessantemente, moja! moja! (acqua! acqua!) e quella nasale dei muezzin.

      D’improvviso Notis si levò in piedi come spinto da una molla, emettendo una bestemmia.

      Aveva visto un ufficiale uscire dal campo e dirigersi verso Hossanieh e precisamente verso la casupola di Fathma.

       Ah! esclamò